Atmosfera, pathos e suggestione.
Queste sono tra le prime parole che mi vengono in mente ascoltando questo disco del solista Mark Nelson (già membro dei Labradford). Il titolo dell'album è omonimo a quello del suo proggetto "Pan American".
La musica, per contenuti e per arrangiamenti, cambia un pò le carte in regola rispetto allo standard tipico Labradfordiano. C'è meno tensione emotiva, caratteristica tipica che accompagna tutte le produzioni sotto il nome Labradford. Meno carica emotiva da un lato, dall'altro la musica guadagna in introspettività, senso di isolamento, mistero, senza perdere in suggestione.
Non so neanche io spiegare cosa mi fa pensare l'inizio di "Starts Friday", tre note perse nello spazio, che si ripetono ciclicamente la introducono. A seguito inizia il brano vero e proprio: il suono è rarefatto, l'arpeggio di chitarra è calibrato, note di organo perse nello spazio fanno da accompagnamento alla voce sussurrata di Nelson, senza minimamente scalfire la tenue melodia e il barlume di luce crepuscolare, di cui risplende questa traccia.
Un arpeggio di chitarra vibrante, un pò dark, con una dose massiccia di pathos, introduce "Remapping", traccia minimalista con tanto di pulsante basso dub a fare da accompagnamento. Un ritmo scarno ed essenziale si accompagna per gran parte del brano. Il delicato tappeto di arpeggi inizialmente isolati, si arricchiscono gradualmente di nuovi suoni al fine di abbellire, variare, modificare, l'impalcatura sonora del brano. Notturno e crepuscolare sino al DNA, un pò come tutte le composizioni di questo album.
Più movimentata risulta "Lent", dove torna a farla da padrone un variegato giro di organo, l'accompagnamento vocale di Nelson qui più presente che mai. (per lo standard dell'album) Il ritmo si fa più vivace e la chitarra in questo contesto diventa un accompagnamento decisamente "dream", anche se tutto il materiale sonoro viene sempre trattato con il massimo "rispetto". Questo comporta una consistenza sonora dilatata con suoni levigati, nonostante la traccia abbia un andamento movimentato.
Dopo il relax di Lent, ci pensa "First Position" a riportare la musica su territori nuovamente più cupi. In questo caso la stessa traccia rappresenta uno degli apici massimi di suggestione raggiunti dall'album. Dura solo due minuti ma ti fa freddare il sangue, tesa all'eccesso. Un "bleep" isolato contrasta magnificamente con l'andamento "dark-noise" del brano, il quale viene per due volte "rotto" da un inquietante e affannoso sibilo, finito il quale, riprende più denso e magmatico di prima. Assenza totale di ritmi, dominano solo tappeti di frequenze sonore, governate con maestria.
Un vivace ritmo semi-tribale/tropicale con tanto di tamburelli, accompagna "Tract", frizzante e giocosa parentesi sonora in un panorama spesso assai austero. "The Dark Nest" ci ripensa, e torna sui suoi passi, proponendo nuovamente ritmiche più lente e melodia di organo solenne. Richiama forse agli sconfinati paesaggi di certe località americane e non, con la natura che domina su tutto, e la terra davanti a te, talmente tanto ricca di dettagli, da perdercisi dentro per decine di minuti. Segue "Noun", altra traccia ricca di innesti dub e bassi pulsanti e riverberati, pecca forse di un eccessiva ripetitività, resa ancor più evidente dall'uso quasi ossessivo della tastiera analogica, utilizzata per emulare qualcosa di simile al suono di un violino.
Al contrario risulta riuscitissima invece, la penultima traccia "Lake Supplies" dove torna protagonista la chitarra, per formare il brano forse più acustico dell'intero album. Cadenzata ad ogni singola nota, ogni singolo arpeggio. Sembra voler esprimere un qualcosa che si potrebbe definire come "fatalità" o "inevitabilità", come qualcosa contro cui l'uomo può fare ben poco. In conclusione, il "buco nero" dell'album, la soporifera "Pt. 1" che alle mie orecchie è apparsa come un "nulla sonoro", nata forse con l'intento di trasmettere inquietudine, ho deciso in questa sede di chiamarla "buco nero" poichè per me l'album si conclude con la numero 8, questo credo che renda ben chiaro cosa penso della traccia N°9. ;-) Come dico sempre però, le mie possono essere opinioni benissimo non condivisibili!
Ottimo album di cui ne consiglio caldamente l'acquisto. Un lavoro dalle atmosfere rarefatte e "brumose" con un sound che, una volta entrato in circolo, arriva ad essere parte integrante di te stesso, diventando difficile potersene poi liberare. Non sto dicendo che si tratti di un album facile, o addirittura commerciale. Tuttavia, per chi ha la pazienza di ascoltare, è qualcosa che sa essere assolutamente coinvolgente, con un incredibile impatto emotivo.
Ps: A tal proposito, ancora una spanna più alto, risultano essere i successivi lavori di Nelson, sempre sotto Pan American. (Quiet city, The River Made No Sound)
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