Incontrarlo dietro le quinte equivale ad incontrare un caro e vecchio amico: lo stesso calore senza veli, gli stessi abbracci che non sanno mentire. Mi ringrazia arrossendo e mi chiede di assumere “una posa da signore dell'Ottocento” per una seconda foto e, per un attimo, mi chiedo chi di noi due sia fan dell'altro; ma è bello starlo a guardare mentre distrugge piedistalli a colpi d'ascia. “Ok, Paolo, ma ricorda che tu sei già una meravigliosa donna in un corpo da uomo dell'Ottocento” gli rispondo, riprendendo una sua antica ed autoironica affermazione. Ride. Ridiamo.
Poco prima, nello stretto e caldo ventre della sala concerti dello Zò di Catania, l'avevo guardato cantare, suonare, urlare, sudare e scherzare. Esatto: scherzare: chiunque abbia mai partecipato ad un concerto di Paolo Benvegnù sa quanto sia incline a dedicare la seconda parte dei suoi concerti a dell'ottimo cabaret, improvvisato in loco con l'ausilio della sua band (per inciso: Andrea Franchi, Guglielmo Ridolfo Gagliano, Igor Cardeti e Luca Baldini). “Essere comici e tornare primitivi”, cantava nel brano “Il mare verticale”, che apriva il disco d'esordio “Piccoli fragilissimi film”. E allora via! a deliranti imitazioni di celebri cantanti e ad esilaranti canti goliardici in toscanaccio. Le risate che ci tira fuori sono della stessa natura delle molli emozioni che, prima e dopo, ci infonde con le sue canzoni: l'altra faccia della medaglia.
E' tutto emozione, pathos e cuore, quando si parla di Benvegnù. Il pubblico urla, canta, si entusiasma seguendo le mosse delle cinque figure spiritate che si dimenano sul palco; il pubblico si commuove e applaude con vigore: un'accoglienza, mi diranno dietro le quinte, che Paolo e la sua banda non si aspettavano. Intona la modugnana “Cosa sono le nuvole”, tra un pezzo tratto dall'esordio ”Piccoli fragilissimi film” e uno dal recente “Le labbra”, e impallidisco nel sentire la stessa forza drammatica dell'originale, conservata intatta in ogni sua briciola. Rinverdisce i fasti degli Scisma, il gruppo di cui è stato il leader fino al 2003, regalandoci versioni iper-proteiche di “Troppo poco intelligente” e “In dissolvenza”, accanto alle dolci “L'universo” e “Rosemary Plexiglass”. Suona, dimenandosi con nobile furore, aizzando e lasciandosi aizzare dai suoi compagni di palco. Dialoga con il pubblico, risponde commosso ai grossi applausi. Muove emozioni in massa come un Deus ex-machina decadente. Crea, mescola, anima.
L'interpretazione migliore? Senza dubbio, per chi scrive, è stata quella della succitata “Il mare verticale”, con i suoi accordi obliqui di pianoforte che sembrano risalire le profondità dell'oceano, lenti, cullati dalla corrente; con la voce di Benvegnù che sembra tendere verso uno strano punto di disperata ispirazione, come se un carico di gioioso spleen gli pervadesse le corde vocali, facendolo suonare come un novello Luigi Tenco al culmine del suo sentimento. “Io lascio che le cose passino e mi sfiorino, perché non sono ancora in grado di comprenderle”. Passano e ci sfiorano, le note, e non le comprendiamo, ma lasciamo che irradino le nostre tempie come un bicchiere di ottimo whisky.
“Grazie a voi”, mi dice alla fine, “perché il concerto non l'abbiamo fatto solo noi, sul palco”.
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