Un disco fuori tempo, dal tempo e dai tempi. Sì, perché Paolo Conte è la prova provata che il tempo è più che altro una finzione, e che il falso progressismo che permea di sé la musica negli ultimi decenni è spesso, più che altro, uno specchio per le allodole. Cosa dovevamo chiedere a Conte? Che dopo dieci anni di silenzio (relativo: dischi live, riletture di successi e never ending tour non sono certo mancati…) tornasse con un disco elettronico? Che facesse un disco ruffianone di duetti coi giovani, da Subsonica a Pausini, per azzardare il peggio? Che abbandonasse il jazz e la musica da camera che tanto ama per fare un disco cantautorale puro, magari con collaborazioni eccellenti? No. Niente di tutto questo…: ha fatto un disco di Paolo Conte. Il che, se ci pensate bene, è la più oltraggiosa e sfacciata sfida ai tempi che avrebbe mai potuto concepire.

Un disco che nasce per non essere capito, o per essere capito da pochi, e quasi tutti certamente over trenta. Come...? Osa non aver come punto di riferimento – artistico poco ed economico tanto... - il sacro decennio tra venti e trenta ? Sì. E quindi eccolo lì, sornione, alcolico, fumoso, scimmiesco e traballante come non mai, a scrivere liriche stilisticamente perfette e ispiratissime, a confezionare musiche più cameristiche del solito, ma sempre con un occhio al "suo" jazz, che poi è lo swing, certamente più affine e affezionato a Chick Webb che a Miles Davis.
Sempre lì, e ce lo immaginiamo con un notes in mano, in una camera d'albergo di Francia, con la pioggia di fuori, o nella sua casa nel Monferrato (e cambia poco), magari sulla veranda, ad aspettare che Gong Ho, lo spirito dell'ispirazione, gli faccia visita. E per questi tredici bellissimi brani, evidentemente, Ging Ho non l'ha lasciato solo.

Elegia, brano che da il titolo al disco, è una canzone circolare, con strofa piacevolmente ossessiva, tipo Le Chic Et Le Charme di tant'anni fa, ed è una delle sue canzoni più belle di sempre, senza dilungarsi in una disamina che, per quanto ben fatta, non potrebbe che essere svilente. Poi San Francisco viene mediata fellinianamente in visioni stravolgenti e personalissime. "Molto lontano" è "oltre Milano" e non sembra di dover aggiungere niente. Torna sul Mocambo, per una quarta parte di una saga che credevamo finita e che, piacevolmente, non la è. Poi si parla di sonno elefante, di India, di una Casa Cinese, del Regno Del Tango, e così via... tutte cose difficilmente descrivibili. Vi basti sapere, se già non lo conoscete, che sono visioni sognanti, eteree ed eterne, senza tempo, ove tutto è perfetto e contribuisce a confezionare un'opera bellissima, che verrebbe da definire "di una volta", se la definizione non fosse, di fondo, banale e perdipiù oggetto di troppi possibili frantendimenti. E Conte è sempre lì, lì dove c'era Novecento, dove c'era Una Faccia In Prestito, ma anche Un Gelato Al Limone, Aguaplano..., e tutti gli altri, ma non dove c'era quel sogno di Razmataz, sogno che, come tutti i sogni, sarebbe stato meglio fosse rimasto tale. Il Genio non ha la colpa d'essere uguale a se stesso: ne ha il merito.

Nessuno – io meno che mai- s'aspettava che tornasse, e che tornasse con un disco così bello. Devo ammettere d'averlo messo, in cuor mio, più volte là, insieme a Lucio e Faber, tra quelli che ci hanno dato tantissimo e che non potevano darci più nulla, dimenticando che quello che girava per i teatri d'Europa era un musicista, e ancora un autore, meravigliosamente vivo. A identificare e unire basta una frase del disco. Capita quella siamo tutti della stessa squadra.
Noi vogliamo gli indiani... non vogliamo l'amor...

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