Incontrai "Paris Milonga" una sera di ottobre di sei, sette anni fa.
Fuori pioveva e ingrigiva, la gente correva senza ombrelli verso le case o i cinema, in uno scenario degno delle prime scene de "I Vitelloni"... Finii in un centro commerciale a fare la spesa vicino all’orario di chiusura. Lo trovai che giaceva a 12.000 lire in fondo alle ceste di cd vecchi, vicino al reparto salumi.
Copertina mezza rotta, lo presi. Passai una delle notti più commoventi della mia vita. L’avevo scelto forse per quella fantastica copertina new wave/papettiana, per la presenza del cavallo di battaglia "Via Con Me", unica canzone che conoscevo del Paolo Conte interprete. Ero completamente a digiuno dell’avvocato di Asti, non sapevo di trovami davanti al secondo atto della cosiddetta "trilogia del Mocambo" (dopo "Gelato al limon" e prima di "Appunti di viaggio"), mi incuriosiva quell’anno di uscita, 1981. Cosa poteva propormi il panorama nazionale in quell’anno anomalo?
Una delle più solari certezze del decennio. Un giovane vecchio di 37 anni che vive fuori dal tempo, per il quale è anche ingiusto parlare di datazioni. La sua musica non ha coordinate temporali. Prima di tutti i Capossela, di tutti i Cammariere, Conte ha forgiato un proprio stile, nuovo ma allo stesso tempo basato sul classico, sulla tradizione: nel suo caso la mitologia jazz-swing del primo trentennio del novecento.

È iniziata con l’omonimo "Paolo Conte" (1975) la ricerca di un’atmosfera che vuole rendere omaggio al passato senza risultare nostalgica, che vuole raccontare le sensazioni di uno chansonnier qualunque, celebrante un'Europa in bianco e nero che profuma di vecchie drogherie e sigarette al mentolo, di boogie sfrenati e piovosi amori d’oltralpe.
Come sempre il viaggio è rigorosamente in treno ("Azzurro", "Il Treno Va", ecc.), se non su vetture d’epoca tipo una Topolino amaranto.

Stavolta si parte con "Alle prese con una verde milonga", pezzo maestoso che fa della milonga un sogno, l’accompagnamento (rallentato) ai più suggestivi trip di un musicista estasiato dalla propria arte.
Verremo poi scarrozzati tra vaneggiamenti americani ("Blue Hawaii") - perché il mondo oltreoceano non si vede, ma si sogna - tra surreali profezie sul genere femminile ("L’ultima donna") e storie d’amore, di sguardi, di silenzi ("Un’altra donna").
"Via con me" non ha bisogno dei miei commenti, è una summa tra le tante del pensiero contiano, fatto di amore e odio per le radici, di affetti abbandonati e inseguiti; è la "Born To Run" all’italiana.
Arriviamo all’ultima fermata, quella "Pretend Pretend" che potrebbe essere l’accompagnamento ai titoli di coda di una tarda commedia all’italiana, con la sua malinconia velata da un coro di voci femminili a metà tra Lili Marlene e la Lisa Minelli di "Cabaret".

Scorreranno appena dieci brani, e ne vorrete di più. Io ho provato gli altri album, il livello qualitativo è sempre incredibilmente alto. Lo stile è sempre omogeneo, non immaginatevi grandi scossoni, Paolo Conte non è Beck. Ma ha una classe e un tale genio da sembrare (come tutti gli altri nostri cantautori classici, da Guccini a Bertoli) statico in quanto a innovazioni musicali; in realtà ha composto musica immortale, tesa verso l‘eccellenza, che sa evolversi, ma in modo silenzioso e lento, quasi artigianale. La critica ha incoronato definitamente "900" (1992) come capolavoro del nostro. A mio parere per quanto quest’ultimo sia un ottimo album è solo il punto di arrivo di un processo (durato più di dieci anni) di rielaborazione di questa prima epoca, la ricerca wilsoniana dell’"opera perfetta", che comunque col passar dei tentativi perde un po’ in spontaneità e rischia di esser frainteso per un esercizio di genere. Apprezzo personalmente di più l’ultimo "Elegia", uscito dopo anni di silenzio in - confessato - calo d’ispirazione. Opera spoglia e difettosa, ma nuovissima, bellissima per un sessantenne.
Ma "Paris Milonga" resta il mio amore, uno scrigno di amarezze riflettute e poesie da ascoltare nella pioggia, le dita di un uomo sull’avorio per esprimere il calore di una sera, una voce pensosa ma mai triste che sa aprirci il cuore appena andiamo a trovarla, magari in un caffè fuori centro.

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