Pochi giorni fa ha compiuto 68 anni, ma invece di starsene a rimbecillire davanti alla TV o a giocare a bocce, continua a suonare e a suscitare sentimenti, e come sa ogni contiano che si rispetti "i sentimenti se ne vanno a impigliarsi nei capelli tutti biondi della moglie di Angiolino". Inutile chiedersi chi è Angiolino. Se Paolo Conte non ha le tipiche occupazioni del pensionato, in compenso ne ha i ritmi: per attendere un suo disco bisogna allungare il collo. E' come un vecchio e valido artigiano che preferisce fare pochi prodotti, ma di pregio, che spiccano in mezzo ad una valanga di dischi fatti con lo stampino. Nonostante questo, ultimamente vende parecchio, e finalmente anche in Italia, dopo aver conquistato gran parte dell'Europa.
Se è vero che sono passati ben nove anni tra gli ultimi due dischi a tutti gli effetti "di Paolo Conte", in mezzo c'è stata una parentesi interessantissima, chiamata Razmataz. Un progetto ambizioso, quello di un vero e proprio musical in cui il mondo nostalgico (nel senso buono) dell'avvocato di Asti trovava anche una rappresentazione scenica. Inoltre al "Razmataz tour" era associata una mostra di suoi disegni (alcuni appaiono anche sul disco, e sinceramente Paolo Conte si esprime troppo meglio come musicista che come pittore, non c'è paragone).
In "Razmataz", con testi in francese e in inglese, Paolo Conte riserva la sua voce sempre più rauca ad alcuni preziosi interventi. Per le canzoni più ardue lascia spazio, e fa bene, a giovani e sconosciute ma ottime cantanti. Oppure è la musica che da sola rievoca brillanti atmosfere da Parigi anni '20, come pure un immaginario Mozambico, un'Africa da sogno, da romanzo di Hemingway.Nella varietà di colori tipica di un musical è inevitabile trovare anche qualcosa di stonato: una comica aria operistica deformata ("Pasta Diva") un blues da osteria ("The Yellow Dog") che pare opera di un Tom Waits troppo ubriaco, e poi i duetti francesi "Ca depend" e "La Petite Tendresse", così leggerini da risultare inconsistenti. Ma sono solo imperfezioni: come sempre sono molto più frequenti i momenti di grande ispirazione, primo tra tutti "La Reine Noire", canzone melodica francese da brivido, due minuti di passione pura, in cui sembra materializzarsi il fantasma di Edith Piaf; c'è anche la versione inglese "The Black Queen", ma è meno intrigante. Poi il lento "It's a Green Dream" con la voce di Paolo Conte e il piano, che anticipa lo stile prevalente nell'ultimo "Elegia". Il tema è poi ripreso ed esteso nella strumentale "Mozambique Fantasy (Ouverture)", piazzata alla fine del disco, il che è curioso per una ouverture. E' il sogno di un'Africa misteriosa, vista però dal comodo angolo di una Parigi della belle èpoque, celebrata anche in "Paris, Les Paris", un bel jazz con testo basato su un gioco di parole tra Paris (Parigi) e paris (scommessa). Altro notevole lento per pianoforte e voce è "That's My Opinion". Atmosfere addirittura gershwiniane all'inizio di "Talent Scout Man", per il resto uno scherzo jazzeggiante, poi una strizzatina d'occhio oltralpe con "Aigrette En Sa Valse", tipico valzerino francese con fisarmonica e ancora ritmi esotici nella strumentale "Guaracha" e nel nonsense "La Java Javanaise" dove "Pape Satan Pape Satan Aleppe" con ardita licenza poetica, fa rima con "Pane e salam, pane e salam a fette". Sono tra le pochissime parole italiane di questo disco, in cui un vecchio sogno di Paolo Conte, quello di un suo musical, diventa realtà.
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