"Che cosa succede se lo spettatore si rende conto che i personaggi del film sono del tutto inaffidabili? Cioè che si fa davvero fatica a credere a ciò che raccontano?", si chiede Sergio Badino nel bel libro (consigliatissimo) "Professione sceneggiatore" uscito nel 2007. Bella domanda, di solito o è molto bravo il regista a coprire tale pecca o sono molto bravi gli attori a rendere convincenti caratteri del tutto improponibili. In terza analisi, si rischia di far fallire il film.
E' quello che si devono essere chiesti i 5, dico 5, sceneggiatori (vanno citati: Paolo Genovese, Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini, Rolando Ravello) di "Perfetti sconosciuti". In effetti il rischio inattendibilità era altissimo. Voglio dire, tu metti un gruppo misto di personaggi di varia umanità in un interno, ognuno con un proprio vissuto e un proprio passato, questi s'interfacciano tra di loro e ogni soluzione narrativa, ogni dialogo che esce dalla loro bocca deve essere credibile al 100%. Ecco, questo film ce la fa. Ed è il suo pregio maggiore, oltre che essere uno dei film italiani più belli (e che più sono rimasti) degli ultimi vent'anni.
La sapete la teoria dell'iceberg di Hemingway? Diceva il celebre scrittore:
"Se un prosatore conosce abbastanza bene quello di cui sta scrivendo può omettere le cose che conosce e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanza verità, avrà la sensazione di quelle cose con la stessa forza con cui l'avrebbe se lo scrittore le avesse formulate. La dignità del movimento di un iceberg è dovuta al fatto che soltanto un ottavo di esso emerge dall'acqua" ("Morte nel pomeriggio", 1932, traduzione di Fernanda Pivano)
Nel nostro caso gli sceneggiatori del film ben sapevano di ciò che stavano narrando, tanto da renderlo credibile, ma hanno omesso anche molti particolari, perchè sapevano che lo spettatore li avrebbe colti lo stesso (non c'è bisogno di spiegare che in un ambiente piccolo borghese fatto di segreti e omissioni un tema come l'omosessualità risulta poco gradevole agli occhi dei suddetti piccolo borghesi) e in questo modo hanno reso l'insieme perfettamente omogeneo. Infatti, nel raccontare le vicende di una sera di un gruppo di amici (o presunti tali) che decidono di mettersi a nudo (chi più volentieri e chi meno volentieri) rendendo pubblico tutto ciò che compare sul proprio cellulare, gli sceneggiatori hanno voluto, di rimando, raccontare un pezzo di società non solo italiana che tende a mascherare le proprie fragilità o, più spesso, le proprie meschinità. In tutto il film, non c'è un solo personaggio positivo, uno solo a cui voler bene. Alcuni ce lo fanno credere, ma è un abbaglio. Si riveleranno, in breve tempo, peggiori di altri o, comunque, al loro pari.
Paolo Genovese, che è regista capace (si veda anche l'ultimo "Follemente", 2025) ma che ogni tanto si perde in progetti a dir poco cervellotici (a seguito di questo girò "The Place" che si rivelò un fallimento artistico ed economico), è qui bravissimo nel reggere poco più di un ora e mezza di chiacchiere, dialoghi, colpi di scena, dramma, risate in un unico ambiente, senza che ciò provochi mai noia o tedio nello spettatore. Certo, volendo due piccoli, ma non irrisori, difetti si potrebbero anche trovare: il contesto piccolo borghese è al solito facilone (avesse provato a girare lo stesso film in un contesto proletario avrebbe avuto più difficoltà, ma non tutti sono Monicelli) e ogni personaggio (tranne uno, una casalinga frustrata) è comunque un arrivato (chi fa il chirurgo plastico, chi la psicoanalista, chi il professore, chi la consulente legale, pure il tassista aspira a un ruolo sociale maggiore) e il contesto è fin troppo romano e chic (l'appartamento in cui si svolge il film è ai Parioli, non sia mai fosse stato, che ne so, al Quarticciolo).
In realtà sono due difetti perdonabili e tipici di un certo cinema moderno che proprio le vicende operaie non sa più raccontarle (come disse Monicelli il cinema italiano è finito dal momento in cui gli sceneggiatori hanno smesso di prendere l'autobus) ma, come si diceva all'inizio, gli sceneggiatori sanno di ciò che parlano e, alla fine, parlano a tutti. I segreti sono tali e in quanto tali sono democratici e possono valere per un borghese e per un operaio, cambia solo il contesto.
Nota di merito va all'intero cast, davvero in palla. Alcuni attori, forse, non daranno mai il meglio di sé come in questo film, altri si confermano bravissimi. La coppia di anfitrioni Marco Giallini - Kasia Smutniak è perfetta, ma meritano un plauso anche il monumentale, in tutti i sensi, Giuseppe Battiston (che ha il ruolo più difficile), il solito inappuntabile Valerio Mastandrea (che in questi ruoli ci sguazza), Edoardo Leo (anche se, soprattutto nel primo tempo, un po' col freno a mano tirato) e il comparto femminile, da Alba Rohrwacher (che, a mio avviso, è una delle attrici, non solo italiane, più brave della sua generazione) a Anna Foglietta, una rivelazione.
E' stato venduto in mezzo mondo, vanta innumerevoli trasposizioni teatrali (il contesto si presta effettivamente) tra cui alcune celebratissime in Israele, Argentina e Uruguay. A seguire la versione teatrale italiana e, solo l'anno scorso, quella americana, portata nel tempio del teatro, Broadway.
Incassò moltissimo, a sorpresa, e divenne un fenomeno di costume. Forse perchè toccava un argomento a cui tutti, più o meno, siamo sensibili, come diceva la tagline del film "Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata, una segreta". E' la ripresa di una famosa frase di Gabriel Garcia Marquez. Poi tocca gestirle. Difficile.
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