Nel cinema di Park Chan-wook, la raffinatezza stilistica, le finezze estetiche e allegoriche e la ricercatezza verbale vanno di pari passo, creando opere organiche che lasciano un segno profondo nell'anima e nella psiche. La potenza della parola va a impattare all'interno del tessuto delle immagini, con risultati lirici e poetici sublimi.

Se è vero che Mr. Vendetta, primo capitolo dell'iconica e storica trilogia che ha sdoganato il cinema sudcoreano nel mondo, faceva della potenza cruda e devastante dell'immagine il suo fulcro rispetto all'uso della parola (molto ridotto, come ad esempio nelle opere del compianto Kim Ki-duk), da Old Boy in particolare questa doppia ricerca è stata al centro del discorso autoriale di Park.
Talmente tanti gli aforismi tratti dal capolavoro del 2005 che citarne uno soltanto sarebbe riduttivo.

Decision to leave, che è una poesia già nel titolo, riprende appunto questa tipologia che Park ha fatto sua, nella definizione delle proprie opere che risultano sempre personalissime anche attingendo dalla storia del cinema. Dall'infinita sorgente, dal fiume senza fine della cinematografia.
Quest'ultimo film, in particolare, torna alle atmosfere hitchcockiane già sperimentate in Stoker, primo e unico film internazionale di Park, che però non era scritto in prima persona bensì diretto su commissione. Il risultato era alla fine comunque molto pregevole e di gran classe, seppur lontano dalle vette del Park autore.

Decision to leave è una rivisitazione dell'ossessione, del ritorno, del trauma e del sentimento incancellabile di Hitchcock però in una veste che va molto oltre l'omaggio semplice. Park fa infatti totalmente proprie determinate istanze, situazioni e ricorrenze, trasfigurandole secondo la sua visione poetica originalissima e personalissima. E qui torniamo al punto di partenza: alla potenza della parola.

"Tu mi hai annientato"

Annientare. Annientamento. Michel Houellebecq ha usato questa parola per intitolare il suo ultimo romanzo. Shoah significa annientamento. Questo per dare il senso della forza estrema di questo termine, che all'interno del film assume un significato importante e preciso, definitivo.

Park, come dicevo, si prende cura delle parole, le ricerca, le accarezza, assieme alle inquadrature, ai movimenti, alle allegorie ricorrenti (come quella delle formiche). Decision to leave è quindi un film legato alla parola, anche quella non detta, tuttavia implicita, espressa indirettamente, come a rappresentare il pudore dei sentimenti e dell'amore. Dell'amore che può nascere e fiorire in tempi diversi, come fu per James Stewart e Kim Novak in Vertigo, un amore asimmetrico, che tradisce quindi la contemporaneità indispensabile per vivere appieno qualcosa di irripetibile nell'unicità che è propria di ogni rapporto.

E al tal proposito, un'altra parola forte che si può usare è "disintegrazione", che è simile ad annientamento in apparenza ma molto diversa in realtà: eliminare l'integrazione fra le parti contenenti il sistema. Un rapporto è come un sistema, estremamente complesso. E disintegrazione è esattamente quel che avviene nel momento in cui quel rapporto finisce, lasciando dietro di sé inevitabilmente una sensazione di morte in vita, a seguito della caduta di quel fragile e complesso sistema.

Park dipinge così una storia sentimentale struggente e diversa, come di rado se ne vedono oggi in tempi di aridità, nuova seppur antica. Come solamente il grande cinema sa e può essere. Nuovo e antico nello stesso momento. Privo di tempo e spazio. Sospeso, tra il reale e l'irreale, la proiezione e il sogno, come i grandi amori irrisolti e non vissuti. Sepolti sotto le acque dell'eternità e del dolore.

Un film molto speciale.

"Io nacqui al suo bacio, morii quando mi lasciò, vissi finché ebbe vita il suo amore." In a lonely place, di Nicholas Ray

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