Una delle più interessanti formazioni di prog-folk tedesco, I Parzival, arrivò nel 1971 alla pubblicazione di questo primo disco, "Legend", un vero gioiellino del genere. In quell’ambito potrebbero essere accomunati al folk pagano dei conterranei Ougenwide (dai quali però si distinguevano per il cantato inglese) piuttosto che all’acid folk degli Emtidi o dei Carol of Harvest.

Organizzati in un trio, univano, alla strumentazione tipica del rock, una più classica che favorisse la riproduzione di un profondo sound medioevaleggiante (viola, violino, violoncello, flauto, oboe, percussioni); le influenze della musica medioevale si rispecchiavano anche nel loro abbigliamento, epocale e folkloristico. A ciò aggiungevano anche una leggera influenza di contaminazioni folk tipicamente orientali e, nelle composizioni, un approccio generale abbastanza floydiano, nonché spiccate ambizioni sinfoniche, addirittura wagneriane.

Il risultato è una totale immersione nel passato, anche perché l’album è completamente acustico; la strumentazione rock si “limita”, nell’ensemble, ad originali sequenze di accompagnamenti e armonie filo-progressive. Subito ci si fa trasportare dalle due tracce (bonus) di apertura, dal morbido flauto che accompagna l’arpeggio e il cantato trasognato di “One Day” e dall’epica e darkeggiante “Marshy legend”. La ballata “Resignation”, dominata dagli archi, introduce alla quasi totalmente strumentale “8 Years Later”, forse il brano più tipicamente progressive, per intrecci e cambi di tempo.

Wall Bungalow”, breve strumentale costruita su accordi di piano, fa da ponte tra il progressive di “Senseless n°6” e la pastorale “d’avanguardia” “Empty Land" (basata sulla “Matthew’s Passion" di Bach), entrambe abbastanza sperimentali e nella ricerca delle sonorità (con un occhio al rumorismo) e nel presentare particolari vocalizzi dal timbro abbastanza acido, che possono riportare alla mente le aperture canore di Wooton dei Comus o di Cockerman degli Spirogyra.

Il masterpiece dell’album è la superba suite “Groove Inside”, lunga jam improvvisata che spazia dal raga di pura ispirazione Third Ear Band alle visioni quasi lisergiche della “Sun Symphonia” di Jan Dukes De Gray, per poi svilupparsi in una digressione tribale incessante e concludersi maledettamente in un cantato parodistico “zappiano” della “When I’m 64” dei Beatles; venticinque secondi di cui potremmo aver fatto tranquillamente a meno. Le due bonus track di chiusura, datate 1969, poco hanno a che vedere col sound postumo riscontrabile nel resto dell’album: sono delle brevi folk-pop songs che ricordano marcatamente i più melodici Turtles; curiose, certo, ma nel complesso non aggiungono nulla.

Un album quasi unico nel suo genere, che a differenza dei successivi lavori della band, sempre più melodici e meno sperimentali, resta un punto di riferimento fondamentale del folk prog, movimento che in quanto a particolarità, in Germania, avrebbe potuto competere col kraut-rock imperante.

8/10

Carico i commenti...  con calma