Prima di accingermi ad affossare questo lavoro del P.M.G., prodotto nel 1995, è necessaria una piccola premessa.

Vorrei giudicare lo spessore dell'album partendo dal suo contenuto, e non dallo stratosferico valore di chi ci suona. Si, perché non voglio assolutamente mettere in discussione il valore del leader Pat Metheny, ne tantomeno del suo abilissimo amico storico, nonché famulo, Lyle Mays, con cui si integra alla perfezione da più di vent'anni.

Questo cd dovrebbe essere catalogato come Fusion. Avete presente cosa è la fusion? E' quel genere musicale derivante dal jazz, che approfitta delle capacità di musicisti ottimi che sanno cosa sia l'improvvisazione, che sono stati protagonisti della Old School; saprebbero interpretarla, riproporla, ma pare che dagli anni '70, sia nata questa tendenza al lasciarsi contaminare dalla tecnologia, da desideri di modernismo, da suoni lontani ed esterofili, fors'anche per rispoleverare la fase di stanca che il be bop (un genere troppo elitario e modaiolo ?!?) offriva.

Sapete chi ha fatto grande fusion? Attenzione, ho detto FATTO, e non strafatto (appunto come questo lavoro del pmg): i Weather Report (con Pastorius, Shorter,), oppure gli Steps Ahead con Brecker (peraltro amicone del nostro Pat). Ma questi miti assurdi, sono finiti. Sono finiti perché dovevano finire. Il genere è morto negli anni '80, è stato detto tutto.

Il P.M.G. ha cavalcato per anni l'onda della fusion, lo ha fatto anche bene, ma i lavori proposti dopo il riuscito "Letter from Home", lasciano qualche perplessità.

In primis, e ora passiamo all'album in questione, la forsennata ricerca di suoni nuovi, ritmiche, coretti,  tutto sommato non arriviamo alle follie di "Quartet" o "Imaginary Day", ma siamo in presenza di un evidente impasto di ritmiche curiose, dominanti. Spiego.

Uso questo termine, dominanti, per evidenziare che purtroppo il motivo gira intorno alle ritmiche e non viceversa, e questo è un palese limite creativo.

Paul Wertico, il percussionista, assolve al suo compitino che sfiora il banale. Le verticalizzazioni di Pat, le improvvisazioni, hanno spessore pressoché nullo, sono spesso molli, irriconoscibili. Mays, il tastierista, prova a dare energia e spessore con il suo sound cremoso e a tratti ci riesce anche.

Simpatici i coristi, su un paio di pezzi praticamente sono i protagonisti di una traccia quasi effimera, "And then i knew", che è poi probabilmente il pezzo migliore dell'album.

"Here To Stay" dura troppo e non porta da nessuna parte, troppo tempo per dire troppo poco. La ritmica è stancante, priva di spessore, la melodia è inefficace.  "The Girl Next Door" è sorniona, c'è un assolo di trumpet graziosissimo e melanconico di Ledford, che salva il pastone.

"We Live Here" la traccia cinque, è perfino molesta, probabilmente riuscita perché vorrebbe riprodurre il caos di una metropoli, con i rumori vivaci e disumani del ritmo di vita moderno. Per Pat la fusion è sempre stato qualcosa di multietnico, colorato, ma quel maledetto synth che si avvicina al suono di tromba è quanto di più piatto, smunto e banale osi continuare a riproporre, in più pezzi e naturalmente in più album fusion.

"Red Sky" deve essere uno dei pezzi per cui Pat prova ancora affetto, visto che lo ha riproposto anni dopo rivisitandolo e adattandolo per il contemporary jazz.

Un album da considerare marginalmente, il cui valore commerciale e storico sono decisamente trascurabili

Carico i commenti...  con calma