Nasce nel 1996 questo curioso album del PMG, "Quartet", suonato da Pat Metheny, Lyle Mays alle tastiere, Steve Rodby al basso e Paul Wertico alle percussioni. E' un disco necessario a concludere il contratto con la casa discografica Geffen (per poi passare alla Warner), ricco di elettronica, di matrice jazz-acustica con qualche buona idea qua e là.
Il lavoro si distanzia, pur non essendo nell'intento, dal genere fusion, trattato con successo dal 1987, e fino a qui ascoltato. Urge un rinnovamento, una presa di coscienza che porti al suono e alle melodie quell'innovazione che mancava da anni. Insistere su quel mood poteva essere deleterio. Già con l'album precedente, "We Live Here" del 1995, il sound aveva risentito di un'assenza di freschezza, ed alcune idee parevano assai banali, dopo gli eccellenti exploit del periodo d'oro "Still Life Talking"-"Secret Story". Il ritorno ad un jazz più tradizionale, in "Quartet" viene però macchiato dalla fase di ristagno che il group sta vivendo dopo le stressanti tournee e le pressioni della casa discografica e dalle eccessive sperimentazioni. Il clima poco disteso è un forte segnale negativo che mette in evidenza la poca voglia di una effettiva esigenza creativa e la fretta di cambiare pagina. Non inganni la corposità del prodotto che contiene ben 15 tracce di per una durata complessiva superiore all'ora. L'album appare spontaneo, rumoroso, fin troppo fine a se stesso. La bravura dei componenti non passa inosservata sia per la molteplicità degli strumenti messi "in gioco", sia per il desiderio e l'intento, di tornare ad un sound più acustico. Ma è poca cosa. L'album non è spinto da nessuna motivazione particolare e per strutturarlo i singoli componenti si rinchiusero in stanze diverse a buttare giù, un po' forzatamente, qualche idea da assemblare poi insieme. Anche se c'è del materiale alla cui stesura collaborano strettamente Pat e Lyle, e tre pezzi sono firmati da tutto il quartetto, la maggior parte degli "schizzi" è creata appunto a tavolino in solo un paio di giorni. La registrazione è tuttavia ottima, la qualità del suono evidenzia il vivace groove delle percussioni di Wertico.
Sulla intro e sul brano "When We Were Free" non c'è nulla da eccepire: melodia efficace, solo di Pat convincente e mood riconoscibile. Innovativa e tintinnante "Montevideo", evidenzia un sound arrembante e colorato. Il pezzo è firmato dal quartetto e mantiene vivo l'interesse; questo brano sembra un passo avanti, e le influenze sudamericane tangheggianti, con cambi ritmici continui, portano a credere ad un percoso musicale davvero interessante e alternativo. "Take Me There" è più oscura, ma scorre bene e la melodia percorre strade free jazz moderno e di energico impatto. Ballad con percussioni in evidenza "Seven Days", intimista, insolita ed affascinante. "Oceania" è un percorso rilassante che mette in evidenza il piano di Mays.
Risultato alterno, ma affascinante in "Dismanting Utopia": è sperimentazione pura: variabile, temporalesca e ossessiva, porta la firma del quartetto. "Double Blind" e "Glacier" sono scritte da Mays e discostano parecchio dal suo solito sound: insomma anche per il tastierista c'è voglia di sperimentare un suono molto spontaneo e contemporaneo. "Second Thought" e "Mojave" portano la firma del solo Metheny. Inquietanti ed ostiche. In "Badland", a firma del quartetto, si respira una cupa atmosfera orientaleggiante, ma il suono è molto spaziale ed a tratti il percorso è un po' indecifrabile. Vivace e intensa, porta la firma di Metheny/Mays, è "Language of Time" che non è insuperabile ad eccezione di uno straordinario e coinvolgentissimo giro di basso messo in evidenza in un solo appassionante di Rodby che va a chiudere il brano. "Sometimes I See" è una comune ballad alla Pat, senza ambizioni da memorabilia del suono, riconoscibile e non indimenticabile si allinea al complessivo modernismo del lavoro. "As I Am" va a chiudere l'album senza sussulti, buone le spazzole di Wertico. Il batterista non è mai stato così in evidenza come in questo lavoro.
Gli standard dell'album sono decisamente diversi da quelli ascolati in tutti i precedenti. C'è aria di smantellamento, sebbene gli intenti di dichiarato comune amore per la musica ed il perseverare dello stile PMG rappresentino un capitolo ulteriore della storia del contemporary jazz. Sono gli ultimi colpi di reni della fusion methyniana, che si trascina stancamente verso il collasso di "Imaginary day". Pat ha la testa altrove ed ha decisamente bisogno di "tirare il fiato". La sua iperattività, i troppi progetti accavallati tra loro hanno portato ad un inevitabile abbassamento di qualità.
Carico i commenti... con calma