Questa non è una pagina seria; che l'intrepido e gentil lettore lo sappia subito.

So già come andrà a finire (e certo scrivere per ultima l'introduzione mi rende abbastanza certo di ciò, n'est-ce pas? - Ma quanto mi piace dirlo?): mi impegno per raccontare le emozioni e le impressioni suscitatemi da un album e irrimediabilmente mi perdo in un mare di vaccate scaturite da un pretesto nemmeno troppo velato. Tant'è, non sarei io; e questa vuol proprio essere la mia storia - insomma, mia, sua, o che so io.

 
Questa volta, la base di tutto sono gli Yes, nella fattispecie uno tra i loro capolavori degli anni settanta (seppoca, al limite aggiungeranno qualcosa), quell'opera meravigliosa - peraltro in copertina magistrale - che è "Relayer" del millenovecentosettantaquattro. L'uomo nuovo è un tastierista baffuto che arriva dal cuore di cioccolato dell'Europa, dalla terra che fu ed è, oltreché dei Lindor, dei coltellini della Victorinox, degli orologi a cucù, da polso e a cipollotto, delle guardie urane del Papa, delle fantastiche frittelle di carnevale (carnevale? Brutto presentimento), dei concorrenti rossi a "Giochi Senza Frontiere", dei calabroni di Viganello (con orgoglio mio paese natale), dei ventisei cantoni, delle innumerevoli banche, dei Gipfel e dei bratwurst, dei bellissimi tram di Zurigo (come non ricordarsi che il 5 e il 6 vanno allo zoo e che l'8 aveva una carrozza sola) e del fantastico sapone a scaglie nei bagni dei treni intercity.

L'anno dopo a quello riportato il bravo tastierista si cimenta nella più famosa delle sue opere soliste, intitolata semplicemente "Story Of I", dove io è lui, perché se fossi io sarebbe "Story of him", ma him (cioè io) allora non era ancora nato, né tanto meno patto di Varsavia; e poi la Svizzera è neutrale come lo shampoo Johnson & Johnson.

La copertina, elegante, è giocata sul significato della lettera "i", che sta per "I" (io... lui!) e che ritorna nella sua sghemba rappresentazione simbolica come lettera iniziale di cinque delle quattordici tracce, in realtà filone musicale decisamente unitario seppur eterogeneo.
La lista dei crediti riportata nel libretto è effettivamente tale, in quanto consta, oltre a Moraz stesso, di 12 entità singole e di due unioni di anime (i così citati "Percussionisti o (?) Rio De Janeiro" - ahimè - ed i rossocrociati "Bambini di Morat"?). Non farò molti nomi per i strumentisti, quei pochi saranno comunque uno squallido ricorso alla celeberrima sparata a caso. Tutto come al solito, insomma.

Suonato quasi interamente sulle rive del lago Lemano nella bella Ginevra, a caratterizzare questo ellepì (non che fosse necessario, neh?) ben due sessioni di registrazione nell'ameno e mastodontico Brasile, a cavallo del ferragosto.
"Impact" apre con un boato di tastiera e prosegue con frustate e stridenti accordi, purtroppo accompagnati (tortura dal principio) da noiose percussioni modello-carnevale-di-Rio, clima che prosegue nei cori (quasi gorgheggi) iniziali di "Warmer Hands".
Moraz non può farci niente, è più forte di lui, non può evitare quest'insensata allegria. Il suo lavoro sui tasti è comunque inconfondibile, lunghe scie di acerbo suono solcano l'invero allegro canto, a tratti ombre d'accelerazione. La breve "The Storm" vuole essere proprio questo e, dopo la tempesta, conclude con la classica quiete - ma cazzo, ancora carnevale?

Certo, ulteriormente, intitolare un brano "Cachaca (Baiao)" non è che mi invoglia granché all'ascolto (detesto il carnevale, s'era forse intuito?), ma si sa, in Svizzera il carnevale è un'istituzione, in taluni ameni centri dura anche una settimana. Non è che Patrick si sveglia al mattino e scopre di voler ballare il sirtaki di voler volteggiare in tre quarti in un appassionato walzer con una contadina di Graubünden, e che diamine. Lui è svizzero, e come tale - si è stabilito sul Grütli - deve adorare il carnevale. Quantomeno, c'è l'allegro basso di Jeff Berlin, ci sono delle percussioni con accenni di rumorismo ad opera tra gli altri del batterista del primo lato Alphonse Mouzon (nel secondo lato suona invece Andy Newmark), c'è un allegro saltellar di dita sui tasti, effetto paperella.

Paradossalmente, è assai godibile l'"Intermezzo", pianoforte e polifonia vocale dapprima, qualche sussulto della ritmica, poi lo sconfinamento in territori progressivi dominati dal sintetizzatore che si estendono fin dentro casa; "Indoors" è costruita peraltro anche da uno strumento inaspettato in 'sto popò di contesto, addirittura una chitarra elettrica impegnata in un gioioso assolo.

Quando le allegre melodie festivaliere d'una cittadina di campagna brasiliana che nasconde le proprie magagne sotto ai coriandoli finalmente sembrano dissiparsi, l'ellepì accelera, come del resto il canto strumentale del tastierista; e poco male se a bei brani virtuosi - "Descent" (cascata dalle mille limpide sfaccettature tastieristiche) o "Impression (The Dream)", di grazia pianistica - il nostro alterna delle ossidabili vaccate, quale ad esempio il canto tribal-sciamanico di "Incantation (Procession)".

Per mettere un'opinione personale finto-colta, potrei dire che la musica di Keith Emerson segue toccate e fughe vistuosistiche di raro gusto mentre, d'altro canto, le contemporanee opere soliste di Rick Wakeman descrivono con irresistibile e magniloquente pomposità battaglie furiose e lunghi momenti di quiete. La musica di Moraz no: il buffo tastierista elvetico narra sempre con fare vorticoso, sostenuto dalle sue dita sempre in agitazione; è tuttavia un narrare non epico o maestoso come per il biondazzo che ha sostituito e che lo sostituirà negli Yes, bensì frenetico, rapido, a tratti confuso, fatto salvo qualche momento di apertura melodica come nella bella "Best Years Of Our Lives" o nella simpatica "Dancing Now" Quest'ultima traccia è costruita sull'intreccio di due voci (una delle quali azzarderei appartenere a John McBurnie - voce solista dell'opera), di un'efficace chitarra elettrica e da una solida sintetizzata; brano insomma godibile, sebbene abbia un ritorno di irritante effetto sambodromo - coraggio, Patrick, è la tua storia: liberatene!

Inevitabile, quando i brani sono numerosi, abbandonare qualsivoglia - seppur forte -  velleità di analisi singola dei brani e, così come ho cercato di fare, peraltro riuscendo a non dire assolutamente nulla dell'ellepì, scorrere rapidamente l'elenco, almeno fino alle ultime tre tracce. Non che siano capolavori, ma sono le ultime tre e danno un senso di professionalità alla tremeabonda recensione. Yeah.

"Like A Child In Disguise" è un brano più convenzionale, l'organetto supporta una ritmica rarefatta mentre la chitarra di Ray Gomez emette qualche sussulto strozzato. Al canto - peraltro gioiosamente - si cerca di fare i Bee Gees; non ci si riesce, ma non si può dire che ne venga fuori qualcosa di malvagio: i coretti non sono memorabili, ma a loro modo risultano piacevoli. "Rise And Fall" parte ancora a Copacabana, ma ecco che fulmini sintetizzati provano a demolire il carnevale; sembrerebbe la fine della tristezza... e invece no: ancora donnine nude (con relativi imperatori decaduti) ancheggiano con improbabili gesti voluttuosi su carri perlopiù inguardabili. Moraz è finalmente convinto, ci riprova, saltella sulla folla che non capisce più nulla con un timbro decisamente pesante e scaglia raggi sonori monocordi di forte impatto. Stavolta è finita, rise and fall del carnevale.

 
Un po' però è triste, Patrick.

Il suo lamento, cupo e sconsolato, è una toccante e viscerale "Symphony In The Space"; confessione sonora ora grave all'espiazione delle colpe, ora finalmente acuta e sorridente quando la coscienza è infine pura.

L'anno prossimo proverà a ricominciare, Patrick: vuole rimediare e, poco a poco, ricostruire il suo carnevale, nel segno della tradizione. Festeggerà qualche giorno a Bellinzona; il vestito glielo presta Squire, che ne ha tanti: dovrà solo farlo accorciare.

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