Quarto album in quattro anni per i Pattern-Seeking Animals, magari avessero tutti la loro prolificità di settantiana memoria! Si dice che la troppa prolificità possa giocare a sfavore della qualità e dell’ispirazione (non sono mancate critiche ai Dream Theater anche su quest’aspetto, quando le uscite erano puntualmente biennali) ma al momento questo non succede. “Spooky Action at a Distance” è uno dei lavori migliori dell’anno appena trascorso, è un altro brillante esempio di prog moderno e sgargiante che non rimane schiavo del suo passato.
Il quartetto affiliato agli Spock’s Beard aveva cominciato con un album praticamente prog-pop dai suoni geniali ma fatto di canzoni leggere che ci illudevano di essere spettatori di un progetto formalmente melodico, ma i due album successivi ci hanno detto ben altro (ferma restando l’impostazione melodica di fondo) e ci hanno presentato una band ben più eclettica e spregiudicata nelle influenze. In che direzione va questo attesissimo quarto album? Diciamo che si colloca nel mezzo: in buona parte recupera lo stilema del primo album, tornando a privilegiare brani meno strutturati e focalizzati su una canzone melodica più dichiarata ma non elementare, ma non manca di condirlo con le varie influenze accumulate successivamente; in questo contesto fortemente melodico la voce di Ted Leonard può manifestarsi in tutta la sua potenza; quando però il minutaggio si allunga ecco che il quartetto tira fuori appieno la sua vena creativa e il mix di influenze esplode senza troppe esitazioni.
Gli ingredienti in ogni caso rimangono grossomodo quelli, si continuano ad usare vecchi organi e mellotron ma in una chiave tremendamente modernizzata, archi brillanti che non si prefiggono di diventare davvero sinfonici, suoni di tastiere e synth ispidi e piuttosto strambi, più tutta una serie di soluzioni di provenienza etnica e folk; come se niente fosse troviamo suoni di mandolini, bonghi, arpe, violini, flauti, ghironde (non so se tutti questi strumenti sono davvero reali, però i suoni sono quelli), così il sound abbraccia diverse tradizioni musicali, dal folk americano alla musica latina, quella orientale ed est-europea; soluzioni che a volte risultano spiazzanti persino per il genere prog, genere che dovrebbe essere apertissimo e sperimentale ma spesso si rivela poi chiuso nella sua bolla tradizionalista, contraddicendo addirittura la sua stessa definizione; ma non qui, le influenze più disparate qui non sono sporadiche trovate geniali ma parte integrante della costruzione delle composizioni, ci si sente liberi di osare, creare e sperimentare, cosa che nel prog dovrebbe essere normale.
Come già detto è nelle composizioni più lunghe che si tira fuori il massimo della fantasia e dell’ispirazione, a cominciare dall’opener “The Man Made of Stone”, con la sua cavalcata americana guidata da sgargianti mandolini, oppure “Somewhere North of Nowhere” dove sono strani schizzi elettronici a catturare l’attenzione dell’ascoltatore, ma anche “Summoned from Afar” dove con disinvoltura si alternano mandolini, synth pesanti, percussioni, flauti, mellotron e quant’altro come se niente fosse. Per non parlare di cosa succede poi in “He Once Was”, la colonna portante del disco con i suoi 12 minuti, più movimentata la prima parte e più lenta la seconda, in ogni caso un continuo alternarsi e sovrapporsi di elementi che non può lasciare indifferenti: flauti fiabeschi in apertura, poi si sovrappongono carezze elettroniche, chitarre in salsa western e ancora flauti, fino all’esplosione di ritmi latini con mandolini, percussioni e synth aciduli prima della seconda parte, più lenta e ordinaria che offre fra le varie cose un assolo di sax.
Le altre tracce, più concise e meno strutturate, come abbiamo detto riportano la band all’essenzialità melodica delle origini ma guai a pensare che non siano interessanti, anzi. Spicca in primis “What Awaits Me”, che scorre fresca e priva di intoppi con la sua trama semplice semplice guidata da chitarra acustica e mandolino, ma nella seconda metà vi si sovrappongono in maniera sempre molto originale archi vagamente gitani mentre un synth basso e sinistro martella in sottofondo. “Bulletproof” è malinconica ma brillante allo stesso tempo, usa in maniera geniale le tastiere, inserendo suoni freddi e vibranti che non suonano affatto come già sentiti. Ci sono poi brani dal ritmo vivace e dalla brillantezza estiva, come “Window to the World” e “Clouds That Never Rain”, a far da contraltare invece c’è la ballad “Underneath the Orphan Moon”, un connubio piano-archi che pur nella sua ordinarietà non si esime dal sorprendere con la sua brillantezza. “Love Is Still the Light” è invece un ambizioso tentativo di mixare in maniera inconsueta pop, AOR e folk… e ci riesce davvero bene, è un brano che non si coglie subito e questo è spesso il segnale che è stato fatto qualcosa di incredibile. Il brano invece non entusiasmante, tranquillamente depennabile, è “There Goes My Baby”: tralasciando il fatto che la parola “baby” è piuttosto fastidiosa, mielosa e pacchiana e un qualsiasi gruppo serio la eviterebbe a priori (però sai, l’hanno messa anche i Genesis in una delle composizioni più illustri e quindi si perdona tutto), il brano è abbastanza sempliciotto e non decolla come gli altri. Come bonus track abbiamo delle versioni live di brani dei precedenti album, sostanzialmente un plus per collezionisti.
Non si sa se i Pattern-Seeking Animals sono un progetto momentaneo o sono destinati a durare nel tempo, ma nel frattempo si confermano band fresca e con una propria identità, ogni paragone con band del passato ma anche più recenti appare fuori luogo, di fatto li ho totalmente evitati in questa recensione, chi li paragona a Yes o Genesis (sì, ho sentito anche questo) non ci ha capito nulla, ma pure se tiriamo in ballo i connazionali Kansas siamo in aria di forzatura, di sicuro non sono gli Spock’s Beard 2.0. Mi permetto pure di dire che è uno dei dischi top del 2023 e che con un livello di ispirazione simile gli Spock’s Beard potrebbero anche tranquillamente non tornare, in studio.
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