L’aria dell’Iowa è radioattiva. E’ il radon, il sottosuolo ne è intriso. Questo rende la terra fertile e il vento velenoso.
Qualcuno è pure contento.
Provoca mutazioni genetiche.
Come il sussurro doloroso di Billie Holliday e l’urlo demoniaco di Diamanda Gàlas ibridate nel corpo minuto di una ragazzotta bianca di campagna cresciuta a sermoni domenicali e torte di zucca.
Patty vive in un piccolo buco dell’Iowa, si chiama Logan, che ha questo di buono: è un posto di merda. Così, appena puoi scappi via.
E, infatti, Patty scappa via, lascia i cori della Chiesa, la famiglia (che, nel frattempo, si era spostata a Denver), un padre mai conosciuto ed un patrigno mai amato, le lezioni di pianoforte, le prime esperienze musicali con la Jerry Gray Hotel Jazz Band, i sani valori, i balli scolastici e le bambole regalatele dalla madre.
E’ il 1963, e Patty ha portato i suoi diciotto anni a San Francisco.
La vita è dura ma lì c’è la Musica. E lei lo ha capito la prima volta che ha ascoltato Billie Holliday che la Musica sarebbe stata la sua vita.
E una sera conosce Miles Davis.
Lui suonava al “Black Hawk”. La invita a casa sua per qualche giorno. Le manda una limousine a prenderla. In quei giorni Miles ascolta la sua musica, la incoraggia, l’aiuta a scrivere quella “Moon, Don’t Came Up Tonight” che vedrà la luce nel suo primo album.
Quando Patty avrà un figlio, lo chiamerà Andrew Miles.
Poi, Patty va via. Vola a Manhattan. E’ lì che bisogna essere. E’ lì che accadono le cose.
Fa la cameriera. Tutto il giorno. E’ ancora dura. Ma la notte gira per i locali dove si suona Jazz. Avvicina tutti i musicisti, soprattutto quelli di colore, nonostante la sua timidezza quasi patologica.
Conosce Ben Webster, Chick Corea, Bill Evans, Ornette Coleman. Keith Jarrett la invita a casa sua. Comincia a cantare a qualche festa ed in qualche locale.
Una sera ad ascoltarla capita Albert Ayler.
Ayler sta lavorando a “Spiritual Unity” per la Esp-disc di quel pazzo di Stollman. Decide che Patty è perfetta per la “cosa” che sta nascendo alla Esp.
E’ così che viene fuori “Sings” il primo album di Patty Waters.
E’ musica notturna e schizofrenica quella di “Sings”: una manciata di torch songs fragili e crepuscolari, solo voce, sospiri e pianoforte nella prima facciata, e poi i 14 minuti di “Black Is The Color Of My True Love’s Hair” in cui Patty si trasforma in un lupo che ulula alla luna.
E’ il 1965 ed una cosa così poteva vedere la luce solo alla Esp-disc.
Che roba è? Cosa ne avevano fatto, lei e Burton Greene di quell’innocuo standard folk? E’ riduttivo parlare di free jazz. E’ sperimentazione vocale free-form, psychedelia, musica atonale, baccanale orgiastico, fuffa non-sense o uno scherzo?
La critica non gradì, il pubblico non se ne accorse nemmeno. Ma qualche orecchio più coraggioso si drizzò.
Non trovò il successo, Patty, ma trovò l’amore.
Clifford Jarvis suonava la batteria nell’Arkestra di Su Ra ed era nero. A Patty non importava ma agli altri si. La sua famiglia non glielo perdonò mai, ma neanche lì a Manhattan era facile. L’America non era pronta per la sua diversità, né quella musicale né, tantomeno, quella personale. Lei scrisse per lui “Song of Clifford”.
Non canti in quel modo se dentro non sei libera. E la libertà non è mai gratis.
Stollmann non pagava i suoi artisti ma le pensava tutte per supportare la loro musica. Così pensò bene di farsi sponsorizzare dal New York State Council for the Arts una serie di concerti nei college.
La cosa incredibile è che ottenne il finanziamento.
Stollmann mise su di un bus la nostra Patty, Sun Ra, Ran Blake, Giuseppi Logan, il trio di Burton Greene e li mandò in giro per quei concerti. Suonavano, mangiavano e dormivano tutti insieme su quel bus. Provate ad immaginare!
I nastri che ne vennero fuori furono pubblicati a nome di Patty Waters col titolo “College Tour”.
Se “Sings” vive di notte, “College Tour” è un disco dell’alba. E’ il momento del risveglio, quando la coscienza non è ancora desta ed i mostri sono ancora liberi di urlare. E’ quel momento in cui Molly Bloom vomita la sua anima. E’ un disco, se possibile, ancora più estremo di “Sings”, più astratto, più ostico, ma, per me, anche più bello.
Guardate la cover: la piccola Patty, che in “Sings” sorride timida in un bianco e nero che vuole essere raffinato, è diventata la sacerdotessa di un rito dionisiaco. I suoi occhi sono caverne buie, il sorriso ambiguo ed indecifrabile, un oscuro simbolo disegnato sulla fronte, una nudità suggerita. La mutazione è compiuta.
Sarà il suo secondo album. L’ultimo per quasi trent’anni.
Perché Clifford se ne era andato, aveva la sua carriera da seguire (e ne farà di cose buone, sia da solo che con gente del calibro di Chet Baker e Archie Sheep e altri). Ma le aveva lasciato qualcosa: un bambino.
La libertà non è gratis e, prima o poi, ti verranno a portare il conto.
Patty molla tutto e se ne va in Europa, ma i soldi finiscono presto, dalla Esp-disc ha ricevuto – in tutto – non più di 350 dollari. Così torna a New York e si mette a lavorare come bigliettaia in un cinema dell’East-Side.
Non ha più voglia di cantare.
Stollmann la cerca, la trova in un piccolo appartamentino, spoglio e disordinato in cui, però, c’è un pianoforte a coda. Ma Patty non ne vuol più sapere: ha un figlio da crescere.
Patty se ne va in California. Andrew Miles nasce nel 1969, lui avrà quello che lei non ha avuto.
Perché non canti in quel modo se dentro non hai un cuore.
Con quale voce canterà le ninne-nanne per Andrew?
E Patty sparisce.
Ma la struttura drammaturgica prevede tre atti. Andava bene per Aristotele, va bene per la vita.
Terzo atto: la scoperta.
Perché lei è sparita ma i suoi dischi no. Qualcuno li scopre, li ascolta , ne parla. Quei due dischi incredibili sono l’epifania di tutta la sperimentazione vocale che verrà: Diamanda Galas, Yoko Ono, Meredith Monk, Patty Smith, Joan LaBarbara, Lydia Lunch, i Sonic Youth la omaggiano più o meno apertamente. Ma l'omaggio migliore viene da Yoko Ono che, stanca di sentirsi ripetere quanto doveva alla Waters, fece scrivere: “Ms. Ono did not know Ms. Waters or her work.”
Nel 1996, Patty è a Santa Cruz; fa la commessa nel negozio di un amico. La vita è dura. La intercetta la pianista Jessica Williams che vive da quelle parti e le propone un disco tributo a Billie Holliday. Il disco si intitolerà “Love Songs”.
No, questo non è un film di Holliwood. Non ha quel tipo di Happy ending: il disco non vende un cazzo. Quel treno è passato. Patty farà qualche concerto, verrà pubblicato un disco di demos ed outtakes, “You Thrill Me: A Musical Odyssey 1962–1979”, nel 2004 ed un live, “Happiness Is a Thing Called Joe: Live in San Francisco 2002”, con il vecchio amico Burton Greene nel 2005. Ma, ormai, è un affare per pochi intimi. Lei se ne sta a Kauai, una piccola isola nel mezzo dell’Oceano; ha seguito Andrew Miles che fa il surfista.
Si è persa in mezzo all’Oceano. Come il dolce, fragile Tim; che -consapevole o meno – è stato il suo più vero, genuino epigono. Tim, il navigatore delle stelle, che tra l’Oceano delle stelle si è perso.
Questo è tutto, un piccolo fiore spuntato nella venefica aria dell’Iowa. Cos’altro è mai venuto da lì (e cosa ti vuoi aspettare da un posto in cui il piatto tipico è un wurstel, impastellato, fritto e piantato su di uno stecco)?
Solo due personaggi famosi vengono dall’Iowa. Uno reale: John Wayne. Ed uno immaginario: James Tiberius Kirk.
James T. Kirk, il capitano dell’Enterprise, il protagonista di Star Trek.
Un navigatore delle stelle.
Sarà stato un caso?
(Dedicato ad Andrew Miles Waters. Dovunque tu sia: vaffanculo!)
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