Ma di suonare (e registrare) evidentemente il Paolone non ne poteva fare a meno, e così la sua discografia è una delle più nutrite che si possano trovare in circolazione, tanto che sfido chiunque (anche il fan più accanito) ad alzare la mano e dire “io ce li ho tutti!”.
Impossibile averli tutti, sia perché non è facile trovarli, sia perché si tratta veramente di tanto materiale, come se, infastidito dal discreto successo che nel frattempo raccoglievano i (non più suoi) Death SS, avesse voluto aristocraticamente (e barbaramente al tempo stesso) trarsi fuori dal cerchio della musica che vende, per rifuguarsi in un mondo underground in cui tutto, in totale libertà, e nella totale estraneità delle regole del music business, potesse essere pubblicato. Tutto.
Difficile quindi districarsi in questa giungla di pubblicazioni, fra band, pseudonimi, progetti paralleli e carriera solista. “Master of All Times”, registrato in presa diretta nella notte di Halloween dell'anno 1999 e pubblicato nel 2001, fa parte della serie “Paul Chain – The Improvisor”, etichetta sotto la quale si animano gli album più sperimentali e maggiormente svincolati dal verbo heavy-metal, di cui Chain stesso rimane pur sempre uno straordinario interprete.
Tanto per iniziare “Master of All Times” non vede la presenza della chitarra, lo strumento prediletto del Catena; un album quindi di sole tastiere, un lavoro che tuttavia continua a portare in sé il DNA del musicista marchigiano: improvvisazione, talento visionario, suoni allucinogeni, atmosfere mistiche e tanto (ma tanto) amore per gli anni settanta.
Non più quindi Black Sabbath, doom, heavy-doom, very-doom, psycho-doom. Ma anche in veste “ethereal prog” (così potremmo definire le sonorità di “Master of All Times”), la musica di Chain conserva tutto il suo fascino. E l'album in questione non sfigura accanto alle prove più riuscite della carriera solista del Nostro. Difficile tracciare paragoni: la personalità di Chain rimane forte ed indefessa, nonostante i continui rimandi alla musica cosmica, allo space-rock e al magico progressive degli anni settanta. Ma qui il carattere di jam session improvvisata non si confonde con i fumi di una psichedelia allo stato brado, considerato che i cinque brani qui presenti (che in verità potrebbero essere visti come un'unica suite di quaranta minuti) progredicono in maniera ragionata, senza mai debordare oltre i confini del comprensibile.
E così la batteria di Danilo Savanas si muove metronomica offrendo il canovaccio ideale per le libere variazioni delle tastiere ammaestrate dallo stesso (ottimo) Chain, che fa del suo strumento un uso "hendrixiano", avvicinandosi a tratti all'attitudine del grande Mike Ratledge dei grandissimi Soft Machine (di contorno troviamo il fluttueggiante flauto di Anna Alier, il violino elettrificato di Filippo Rollando e l'effettistica svarionante messa a disposizione da Erica Scar).
E' un piano jazzato, non a caso, ad aprire le danze di questo piccolo gioiello di musica libera e temeraria: i diciotto minuti e mezzo di “Strange Philosophy of Life” ipnotizzano, producono visioni ed al tempo stesso procedono piuttosto bene, ben anticipando, fra pause e ripartenze, quello che ritroveremo nella porzione rimanente dell'album, ossia una sorta di “meticciato progressivo” sospeso fra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni ottanta, ancora pervaso da quelle ambientazioni fiabesche che hanno caratterizzato le prime incarnazioni del rock progressivo, ma già proiettato verso la reiterazione e le sperimentazioni del kraut più lisergico e dell'elettronica che si andava consolidando nel corso dei settanta, per poi plastificare definitivamente il rock nella decade ottantiana.
L'incalzante e ricca di variazioni “Spiritual Way” (quasi dieci minuti) evolve il discorso animandosi nei controtempi di Savanas che divengono le vertebre sconnesse di un flusso sonoro omogeneo: un flusso sonoro che ondeggia in un perenne saliscendi ultraterreno dove a prevalere è la tecnica del vibrato che distorce, deforma e sfibra le trame tessute dalle tastiere di Chain, che ben si districa fra ossessivi assoli di organo hammond, tappeti visionari ed obliqui sprazzi di pianoforte.
Dopo la pausa ambientale che porta il nome di “Inexpicable Inwardness”, il reprise della traccia iniziale “Water of Verity” e il reprise del riprese “Hoping for Better Things” riportano l'opera sui binari di quella che era stata la maestosa suite d'apertura, questa volta però come percorrendo la strada a ritroso, dove i nastri sembrano riavvolgersi e le tastiere s'ingolfano e si accartocciano sotto i colpi implacabili di una batteria che torna a battere tempi cadensati ed inesorabili. Il viaggio termina in una dissolvenza che fa presagire l'eternità, anche se poi il viaggio è durato solo quaranta minuti. Spazio e tempo: tutto relativo.
"Master of All Times” è quindi, fondamentalmente, irrimediabilmente un trip: immagini sfocate, sfumature nero-blu-celesti che volgono inevitabilmente verso lidi misticheggianti (ma un misticismo pregno della grandezza artistica dell'uomo che sta dietro al progetto). Il falsetto di Chain, come da copione, ripercorre i fonemi allucinati di una lingua totalmente improvvisata, divenendo uno strato ulteriore di una musica a cui piace fluttuare armonicamente, in totale libertà, rispondendo solo ai dettami dell'ispirazione del momento.
Spiace leggere sul sito dell'artista che la morte artistica di Chain, per volontà dello stesso autore, sia sopravvenuta solo pochi anni più tardi, nel 2003 per l'esattezza. Ma siamo convinti che anche sotto lo pseudonimo di Paul Cat, Chain saprà continuare a regalare emozioni.
Paul Chain è morto. Lunga vita a Paul Chain!
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