E dunque Paul Chain lascia i Death SS e fonda i suoi Violet Theatre (era il 1984).
“Violet Art of Improvisation”, pubblicato nel 1989, è un doppio album che raccoglie registrazioni avvenute fra il 1981 e il 1986, e ben rappresenta la fase di migrazione che ha portato il mitico Paolone dall'Horror Metal patrocinato dalla storica band da lui fondata assieme a Steve Sylvester, allo psyco-doom della fase solista, che lo ha consacrato allo status di autentica eminenza (con forti riconoscimenti a livello internazionale) del genere stesso.
Più che un'opera autonoma ed indipendente, “Violet Art of Improvisation” è il (disordinato) manifesto programmatico del nuovo Paul Chain, sospeso fra metal e sperimentazione. E ciascuna di queste due dimensioni è ben rappresentata in ognuno dei due dischetti qua presenti, uno elettrico, l'altro elettronico: il primo disco raccoglie infatti le sessioni più antiche (1981 i primi due pezzi, 1984 il terzo), che ci consegnano un Paul Chain nella veste più tipicamente rock: un rock ovviamente che si prostra doverosamente innanzi all'oracolo sabbathiano, ma che non rinuncia a quelle pulsioni sperimentali che probabilmente hanno portato Chain fuori dall'heavy metal canonico dei (non più) suoi Death SS. Il secondo disco (registrato nel 1986) ci appare invece maggiormente ragionato, orientato principalmente su tastiere e sintetizzatori, anch'essi maneggiati magistralmente dal nostro eroe.
Due album distinti, quindi, il primo abbastanza acerbo (registrazioni casalinghe e scazzo assoluto), il secondo più maturo (forse animato da un concept), unificati dalla verve creativa di Paul Chain, il quale punta tutto, ancora una volta, sulla sola improvvisazione. IMPROVVISAZIONE è la parola chiave per comprendere la carriera solista di Paul Chain.
Let there be rock, quindi: suoni ruvidi e presa diretta. “Teschi Tetri in Luce Viola” è una mazzata di mezz'ora (!!!), aperta da un preve preludio di organo (l'organo che ci piace, quell'organo marcio da chiesa polverosa e decrepita infestata da preti maledetti) e poi condotta dallo stesso giro di basso (Claud Galley) e dalla medesima marcetta di batteria (Thomas Hand Chaste). Sopra: il chitarrone del mitico Paul, devastante come una badilata di catrame sugli occhi. Alla stregua delle infinite suite dei maestri cosmici Hawkwind, il brano si dissolve progressivamente, la matrice doom si disintegra per lasciare spazio (molto spazio) alle improvvisazioni isteriche e dissonanti di tastiere (anche barocche) ed effetti (pura lisergia elettronica), mentre basso e batteria continuano imperterriti, come caricati a molla, fino alla fine; strascichi di chitarra elettrica e feedback sfrigolanti sporcano di ruggine un componimento che sembra uscire direttamente da una sessione di sodomia fra Tony Iommi e Frank Zappa (con emorroidi). Non manca neppure la voce: effettata, riverberata, essa finisce tuttavia per giocare (strumento fra gli altri strumenti) un ruolo secondario (cosa comprensibile se si pensa che Chain amava scazzare fonemi totalmente inventati, sempre secondo la teoria dell'improvvisazione permanente). Un ottimo brano, quindi, psichedelico e potente, che nonostante la sua estenuante lunghezza, gira bene nello stereo, senza creare quel senso di scompenso traducibile anche con l'epiteto “ma dove cazzo mi trovo?” che esperimenti di questa risma spesso ispirano.
“Emarginante Viaggio” è un sproloquio di chitarra/basso/batteria/voce di “soli” cinque minuti in cui la base ritmica acquisisce maggiore dinamismo, passando da interlocutori fraseggi free-jazz a scorribande di rock bastonante, ben sostenuto dalle chitarre taglienti e dai vocalizzi stralunati di Chain.
Chiusa la parentesi di follia, “X Ray” è un'altra lunga sessione (ventitre minuti) di chitarrismo liquefatto che smorza i toni e porta al termine il primo disco all'insegna di un fumoso doom/blues improntato sulle movenze continuamente mutevoli della chitarra di Chain, che penso l'abbia suonata imbottito di tutte le droghe possibili (impressione che non se ne va, nonostante nel finale il brano si faccia più corposo, prendendo il passo progressivo e bombastico di un cazzuto poliziottesco degli anni settanta).
Non si registra, in questa prima porzione dell'opera, la maestosità evocata da altri lavori di un maestro dello psycho-doom (o meglio del dark-metal) quale è Chain, ma si apprezza lo spirito selvaggio di un rock in decomposizione che non teme di naufragare contro gli scogli acidi della psichedelia e del blues più derelitto.
Ben più interessante, a mio parere, è la seconda porzione dell'opera, nel complesso più omogenea, asciutta e ponderata, capace di mostrarci un artista più maturo, ma soprattutto credibile anche al di fuori dei cliché del doom/metal più classico. In questi sei brani (che potrebbero essere visti anche come un'unica composizione di quarantun minuti) troviamo tracce dei Pink Floyd del trittico “Dark Side of the Moon”, “Wish You Were Here” ed “Animals”, influssi delle sperimentazioni cosmiche dei vari Schulze e Tangerine Dream, echi della follia visionaria dei Van Der Graaf Generator della maturità. Il tutto ovviamente riletto (almeno una decina di anni più tardi, questo va detto) dal talento compositivo di Chain, che qui mette a fuoco le sue aspirazioni più misticheggianti, epurate dalla fondamentale componente heavy/doom.
“Old Way”, nei suoi nove minuti, incanta per il pulsare ossessivo dei bassi e le fughe infinite di organo e sintetizzatori. La voce di Chain è mantrica e viene a ricoprire un ruolo finalmente di rilievo. I quasi sette minuti di “Hypnosis” ne sono la più degna appendice, portando avanti un discorso fatto di elettronica eterea e distensiva (stonante la manipolazione dei nastri), che nel suo incedere ipnotico (incalzata da lievi accenni ritmici) sa trascinare l'ascoltatore in stati di trance sapientemente condotti e scevri dall'effetto disturbante provocato dalle improvvisazioni-fiume che avevano caratterizzato i brani presenti nel primo tomo dell'opera. “Causal Two Your Mister” approda invece all'avanguardia più colta, unendo il Wyatt più patafisico (si guardi ai fraseggi vocali spezzettati e ricomposti in collage astratti che ben ricordano il capolavoro “End of an Ear”) all'isteria surreale dei Van Der Graaf Generator di “Pawn Hearts” (e mi riferisco ai vorticosi loop di synth e al frullare dei bassi elettronici che ricompongono un allucinato quadretto di perdizione siderale).
In “Celtic Rain” torna protagonista la chitarra (in veste acustica, questa volta), e il discorso viene ricondotto nei solchi di un folk dal sapore ben più terreno. Un brano più propriamente orecchiabile che fa il paio con la sofisticata “Dedicated to Jesus” (l'unico brano canonicamente cantato, che non a caso vede la presenza di un vero cantante, tale Gilas, unico guest scelto per l'occasione), dove Chain approda ad una dark-wave d'autore dominata da beat elettronici maggiormente corposi, ed entro la quale il Nostro, in veste di accorto tastierista, può finalmente dare sfogo ai suoi istinti più romantici.
Bello infine l'organo ossessivo di “End by End”, degna chiusura dell'opera: una desolante nenia dal forte potere ipnotico che riprende i toni mistici con cui questa seconda parte si era aperta.
Tirando le somme, “Violet Art of Improvvisation” è un lavoro (se così lo possiamo considerare) che pone le basi per la lungimirante carriera solista di Paul Chain e che ben esplicita quanto oramai l'ego creativo dell'autore stesso fosse ampiamente fuori dall'heavy metal robusto (e tutt'altro che criticabile) verso cui si stavano avviando i Death SS del nemicamico Steve Sylvester.
La palla è al centro: chi vincerà la partita?
Carico i commenti... con calma