Tempo di ristampe per l'artista di culto Paolo Catena, occasione imperdibile per accedere o rispolverare opere che da un po' di tempo risultavano fuori dai circuiti dell'acquisto ufficiale.
Così aprivo la recensione di “Life and Death”, così do agio a questa di “Whited Sepulchres”, altro caposaldo della carriera di Paul Chain che in questi mesi torna ad affacciarsi sul mercato discografico grazie all'opera di recupero compiuto dalla storica etichetta Minotauro, che già aveva curato le release originali.
L'album in questione si riallaccia al filone sperimentale della variegata discografia del musicista pesarese e probabilmente suonerà spiazzante da parte di chi si aspetta sonorità metal o doom, ma non per chi conosce lo straordinario eclettismo del Chain solista e ha apprezzato lavori come “Master of All Times” e “Cosmic Wind”. Negli anni l'ex fondatore dei Death SS ha dimostrato la ristrettezza delle etichette che possono essere apposte alla sua musica, e questo “White Sepulchres” non è certo un'eccezione, bensì uno dei primi esempi di come il Nostro dimostri di sapersi muovere attraverso i generi diversi mantenendo intatta la sua credibilità. Un qualcosa del genere era già stato saggiato in certi episodi contenuti nel doppio “Violet Art of Improvisation” (edito nel 1989, ma contenente composizioni risalenti agli inizi degli ottanta); adesso siamo nel 1991, Paul Chain non si è quindi evoluto, ma sta estrinsecando ulteriori forme del suo poliedrico, anarchico, libero ed anti-compromissorio approccio all'arte.
Con i canoni descrittivi di oggi potremmo parlare semplicemente di stoner-rock, ma considerato il mai celato amore per le sonorità targate anni settanta di Chain, non è un'esperienza sconvolgente provare la propria tenuta mentale di ascoltatore innanzi a lunghissime jam d'improvvisazione che sanno pescare in pari modo dallo space-rock, dalla psichedelia e dal metal pesante, pur presente sebbene in modo assai meno preponderante che in passato.
Si prenda per esempio la mastodontica title-track, che da sola occupa tutto quello che originariamente era stato il primo lato del vinile: venti minuti tondi di selvagge improvvisazioni dominate dal chitarrismo torrenziale di Paul Chain, che per l'occasione imbraccia (con risultati esaltanti) anche il basso. A completare la formazione il fido Lu Spitfire dietro alle pelli (implacabili i suoi contro-tempi) e il supporto chitarristico di Alexander Scardavian (schiaffi e ventate di scartavetrante elettricità a supporto del maestro), per un viaggio allucinante che si pone a metà strada fra la jam spaziale dei maestri Hawkwind, il viaggio cosmico patrocinato dai primi Ash Ra Tempel (quelli del leggendario debutto) e il mood tamarro delle fughe strumentali tipiche delle colonne sonore dei poliziotteschi degli anni settanta, con al proprio centro un solismo irresistibile in chiave chitarristica di evidente derivazione hendrixiana: lezioni aggiornate a nuovi canoni di potenza e rilette dalla tracotante personalità di Chain. Che in questa composizione dimostra di avere quattro enormi coglioni: due per le eccelse qualità tecniche alle sei corde, per l'ispirazione, il carisma e l'autorevolezza con cui regge venti minuti di assalti sonori; altri due coglioni per il coraggio con cui sbatte in faccia all'ascoltatore un tour de force di tal fattispecie. E' questo il Paul Chain che ci piace: quello estremo, assolutizzante, carico come una mina, senza limiti.
E non è che il lato B sia da meno: fatta eccezione per gli umori distesi esplorati nella breve “Two Minutes” (uno straniante arpeggio di chitarra pulita che dura appunto due minuti), gli altri tre pezzi di cui si compone il platter (quarantasette minuti la sua durata) sono altre composizioni assai lunghe (otto minuti circa l'una) che insieme, una dopo l'altra, formano una inesorabile discesa negli Inferi. “The Fox in the Park” (che vede il contributo degli ex Death SS Thomas Hand Chaste e Claud Galley) si impone come la naturale prosecuzione della title-track: partenza soft per poi gettarsi nuovamente nelle stesse ritmiche serrate, nello stesso solismo indomabile e funambolico, con l'aggiunta dei vocalizzi lontani e riverberati dello stesso Chain (veramente esiguo il suo contributo dietro al microfono, tanto che potremmo definire l'album come strumentale) e un progressivo indurimento del suono che nella porzione conclusiva si ricongiunge ad una attitudine finalmente metal, un metal sporco, duro, grezzo, granitico, polveroso, fatto di riff minacciosi e supportato dal solito micidiale comparto ritmico (facendo, solo in questa circostanza, riaffiorare la mai sopita devozione per i padri ispiratori Black Sabbath, seppur immersi in un calderone pieno di LSD).
La successiva “Traffic” si sorregge sul cupo volteggiare di oscuri sintetizzatori e sui colpi dispari di un'elettronica dell'Oltretomba, sopra i quali una chitarra lisergica disegna inquieti arabeschi mentre il sussurro inconsistente di Chain completa il quadro con dense pennellate di tinta nera. La conclusiva “Are You Ready?”, aperta da un remoto salmodiare, discende ulteriormente attraverso i meandri della mente visionaria di Chain, sfiorando l'ambient catacombale, nel quale troneggia il diabolico recitato di Gilas, già collaboratore di Chain in altre circostanze.
Un suono in netto contrasto con il candore della copertina (altro pugno in faccia a chi si aspettava viste su cimiteri o truci distese di nero e viola), che invero va a richiamare quei “sepolcri imbiancati” che semmai attestano l'ispirazione pacifista che anima l'intero album e la visione innegabilmente pessimista del suo autore (dedicato “ai morti vittime dell'ingiustizia generata dalla violenza della stupidità degli esseri”).
Da avere.
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