Titolo che più azzeccato non avrebbe potuto essere, davvero. Poi certo, senza la grandezza della musica qui contenuta anche un titolo del genere avrebbe ben poco significato, ma mi sento di dire che questo titolo coglie in pieno l'essenza di ciò che Paul è stato e continua - a oltre 35 anni dalla sua dipartita - ad essere. Uno che striscia nelle retrovie, lontano dai clamori che hanno circondato altri chitarristi (altri "mostri" della 6 corde, per meglio dire, ché in realtà qui si parla d'una categoria ben più ristretta di quella, universale, dei chitarristi). Eppure, discutendo in giro coi miei pari-età e non solo, ho capito una cosa: che non tanti, di questi "mostri", possono vantare un affetto pari a quello che, negli anni, si è tribuito a questo figlio di un ebreo russo che, nei '60, mosse i suoi primi passi nei grezzi quanto leggendari Black Cat Bones. Aprivano gli show dei Fleetwood Mac, costoro, e appena quindicenni jammavano da bluesmen consumati con un certo Champion Jack Dupree, quando questi era in tournée a Londra e dintorni. Provateci voi, a quell'età... : primo indizio di un prodigio che non avrebbe tardato a confermarsi - a livelli mondiali.
Confesso che il mio primo approccio con la chitarra di Mr.Kossoff non è stato con i Free, anche se la cosa potrebbe essere data per scontata; è stato invece con "Live At Leeds" di John Martyn, inciso quando di fatto i Free non esistevano più, quando Paul aveva già prodotto cose notevoli da solista e si avviava a un qualcosa che non sarebbe mai stato: i suoi 30 anni, i dischi che ci avrebbe ancora regalato, i lavori altrui ai quali avrebbe - da par suo - collaborato. "Back Street Crawler" è il suo testamento artistico, un disco messo insieme in fretta e furia approfittando di un temporaneo attenuarsi della dipendenza da droghe che stava letteralmente devastando il Nostro. Le sessions da cui l'opera è sortita traboccano di sentimento e spontaneità, passione per il Blues e il Rock (mai troppo Hard) in egual misura, senza troppo distaccarsi dal solco già segnato coi Free, dal percorso artistico intrapreso. Prevedibile, dunque, come disco? Minestra riscaldata? Non ci giurerei affatto; nel senso che, per alcuni momenti, la chitarra di Paul torna a ruggire con quell'intensità e - aggiungerei - quelle vibrazioni che non si sentivano dai tempi dell'omonimo "Free" (seconda prova di Rodgers e compagni); poi, come è noto, erano venuti dischi interlocutori, classici episodi "di transizione" con l'eccezione del successo comerciale di "Fire & Water" e degli splendori concertistici di "Free Live". Con "Back Street Crawler" Kossoff ritorna su livelli altissimi, magistrali, sfoderando una prestazione a dir poco superlativa. Non che sia tutta farina del suo sacco, beninteso; ci sono Alan White (quello degli Yes, ovviamente) e Simon Kirke alla batteria, ci sono Andy Fraser e Tetsu Yamauchi al basso, c'è lo stesso Paul Rodgers che in "Molten Gold" canta un pezzo cucito su misura per lui. Potrebbe quindi essere un disco dei Free, per gli uomini coinvolti; ma la struttura dell'opera lascia pochi dubbi: è un disco di Paul.
Perché, lasciatemelo dire, non è un caso che tutto il primo lato sia occupato da una chilometrica jam intitolata "Tuesday Morning", perfetta vetrina d'esposizione per le doti del protagonista, la sua tecnica stellare, le sue evoluzioni che lasciano a bocca aperta. Concettualmente siamo molto vicini a certa filosofia Southern: struttura prefissata di pochi accordi, "fermate" e "ripartenze" libere (a seconda del feeling del momento), l'organo di John "Rabbit" Bundrick a coadiuvare - quasi incessantemente - la chitarra solista per 18 minuti di batticuore costante. Penso alla leggendaria "Mountain Jam" degli All Bros, episodio che l'ascolto di questa "Tuesday Morning" mi ha suggerito all'istante, penso al Clapton dei Dominos, penso al primo Allen Collins: tutti esempi di chitarrismo "torrenziale", non per nulla. "Molten Gold", la dolceamara ballata superbamente interpretata da Rodgers, richiama "Angel" di Hendrix, e non soltanto per quei marcatissimi accenti Gospel che la distinguono: proprio per il muoversi sinuoso della chitarra, quel suonare stralunata, passionale e struggente al tempo stesso che dello stile di Kossoff è la cifra caratteristica; il Boogie della "title-track" ne esalta invece il lato più "british", poiché proprio nelle movenze naturali del British Blues più schietto vanno ricercate le origini di quel sound pastoso, graffiante ma avvolgente, in definitiva irresistibile.
Quanti rimpianti, ascoltando questo disco, gli stessi che - almeno credo - sono stati anche i vostri.
Cinque (anche) alla memoria.
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