È un periodo che in casa urlano tutti, urla mia madre, urla mio padre, urla pure l’amante di mio padre, quando per sbaglio la intercetto al telefono. Mi sembra che urli anche la cantante lirica in tivù, inconsapevole innesco di una mia personale e assurda associazione tra opera e lite domestica. Odio abbastanza tutti e avrei bisogno di qualcosa di più potente di un cuscino sulle orecchie. Uscire di casa, certo, fortuna che tra poco prendo il foglio rosa.
Fatto sta che frequento un gruppo dove bazzicano due inconsolabili figlie di genitori in separazione. Le trovo mentre si abbracciano singhiozzanti, lagnandosi della comune sventura. Non mi dispiacerebbe infilarmi in quell’abbraccio, solidarizzare reclinando il capo su mammelle prominenti sotto le felpe, e invece me ne esco con qualcosa tipo: Cazzo vi lamentate, almeno siete fortunate a non avere più rotture di coglioni in casa come il sottoscritto, che tanto mica vi abbandonano, anzi faranno a gara a viziarvi.
Mi guardano tra l’inorridito e il compassionevole e per tutta risposta una delle due mi rifila il walkman con la cassetta del Concerto in Central Park di Simon e Garfunkel.
-Toh, te lo presto, questo concertone mi rilassa sempre.
Poi arriva un diciasettenne bislungo certamente con le stesse mie mire di infilarsi tra i tormenti delle fanciulle, e dichiara con aria saputa che è appena uscito il nuovo album di Paul Simon, Hearts and Bones,
-Un capolavoro, dovete sentirlo.
Mi fiondo al negozio Stereorecord, trovo il disco in libero ascolto. Afferro le cuffie e appena sento la voce di Paul Simon, dal timbro così quieto e scorrevole, inizio a rilassarmi.
In questo autunno urlato del 1983 è proprio quello che mi serve. Un grande cantautore americano vagamente morfeico, con un’infilata di pezzi dal potente potere sedativo. C’è quest’atmosfera ovattata da brani musicalmente perfetti, lavorati e rilavorati fino a smussarne qualunque spigolo e imperfezione, e non potrebbe essere diversamente grazie anche all’intervento di alcuni mostri sacri come Jeff Porcaro, Al Di Meola, Eric Gale, Marcus Miller, Bernard Edwards.
Così questo lavoro entra in loop sul mio piatto, scalzando soavemente qualunque altra sonorità ferrosa o pop, nonché urla e casalinghi oggetti volanti. La casa e tutto il resto del mondo possono anche crollare: nulla può più scalfire l’imperturbabilità donatami dall’ascolto seriale di Hearts and Bones. Vero che ogni tanto paiono arrivare ventate di apparente brio, come con le canzoni “Allergies” o “Cars are Cars”, ma il vero pezzo che rappresenta il disco per me è la xanaxofila “Rene and Georgette Magritte with their dog after the war”. Apprezzabile peraltro che il nostro americano si rifaccia alla cultura europea, forse anche con i rimandi pirandelliani di “Train in the distance”. Il treno ha fischiato, anche per una coppia in disfacimento.
Infine sedato, scendo in garage, passo accanto alla paterna giulietta beige, mi infilo dentro ad impugnare il volante, cabalizzando come sia la guida di una trazione posteriore. Sul tappetino del lato destro qualcosa attira la mia attenzione. Saluto una milionata di mancati fratelli, imprigionata dentro un serpentello di lattice. Saluto anche Paul Simon, che è ora di tornare al metallo.
Carico i commenti... con calma