La questione è la seguente. Ed è alquanto delicata, come questione.
Si tratta di far buon uso di questo breve spazio che m'è concesso, e di dimostrare (o almeno ci si prova) le due tesi che seguono.
1) "One-Trick Pony" (attenzione al trattino, mi raccomando...) è qualcosa in più della colonna sonora di quel filmettino che fu "Divorzio stile-New York" - per noi Italiani, ma negli USA la pellicola aveva lo stesso titolo del qui presente disco. E per questo motivo se ne può fare tranquillamente un discorso a sé, tanto questi pezzi brillano d'una luce autonoma rispetto al contesto della sala cinematografica. Così era anche nella mente di Paul, d'altra parte.
2) "One-Trick Pony" (di nuovo attenzione al trattino) è anche qualcosa in più di un episodio minore o addirittura dimenticabile nella discografia del piccolo Paolo Simone newyorkese che tanto m'ha fatto e continua a farmi sognare, in coppia e da solo. L'anno è il 1980, del resto: il primo d'un decennio per lui eclatante dal punto di vista artistico e commerciale, in cui verrà salutato come ambasciatore della World Music e (produzioni a dir poco eccelse alla mano) arriverà a confermare il suo già solido status di Leggenda. Un inizio in sordina, dunque...? Mah. Relativamente, direi.
In realtà e paradossalmente (ma di paradossi simili la storia del Rock è costellata), questo 33 rivela meglio le sue qualità OGGI che allora. Tre anni prima di "Hearts & Bones", sei prima di "Graceland", "O.T.P." può essere colto oggi come una preparazione, un antipasto, un preludio (degno) a quelle meraviglie. Nei suoni e nella qualità degli arrangiamenti - ma quello, semmai, era continuare un discorso già intrapreso, più che un precorrere qualcosa; e soprattutto, nella brillantezza della scrittura: pura poesia manhattaniana in un bagno agrodolce di ricordi di gioventù e malesseri del momento. Un "one-trick pony" è un cavallo con un solo trucco, un uomo che nella sua vita sa fare (bene) una cosa sola ed è rimasto limitato a quella. E' una feroce caricatura della rock-star sballottata da palco a palco, sganciata da rapporti umani che non sa più vivere. Con sguardo amaramente auto-ironico, Paul (neanche troppo camuffandosi dietro al personaggio interpretato nel film, ma raccontando sé stesso e il suo mondo) abbozza un bilancio degli anni trascorsi e prova a guardare avanti: un matrimonio in crisi e un rapporto da (ri)costruire con un figlio sono solo i punti di partenza per una sceneggiatura che si fa vita in totale spontaneità, impercettibilmente. Qui sta il bello, o meglio una delle belle cose, del disco.
Fra le altre, ce n'è una che balza all'orecchio già dai primi solchi: il livello altissimo del sound, costruito e cesellato nel dettaglio da gente come Steve Gadd, Tony Levin, Eric Gale, Richard Tee col suo piano elettrico... e proprio per non farsi mancare nulla, quelle sontuose e discrete partiture orchestrali che avevano fatto la grandezza di "Still Crazy After All These Years", e che tornano qui sotto la direzione nientemeno che di Dave Grusin. Tutto ciò - oltre a un cast di "special guests" da aggiungere alla formazione base - è alle radici del feeling notturno e finemente jazzato che trapela da ogni nota; impreziosito da quella vena esotica che di lì a poco sarà la regola, e non la pregiata eccezione, di un repertorio destinato a salir di livello. "Late In The Evening" è pura Rumba, un carnevale di fiati e umori latini che pervadono in lungo e in largo una semplicissima, diretta, immediata struttura blues di fondo: il groove Gadd-Levin, ma soprattutto l'impressionante lavoro del primo dietro i tamburi, è esplicito e sbarazzino invito alle danze (mentre il testo racconta di baldorie e cotte giovanili, locali notturni e musica da suonare e suonare - fino a tardi, per l'appunto).
Ma è ancora presto. L'euforia iniziale si trasforma subito in malinconia e grigiore metropolitano, e salvo parentesi sarà questo il "mood" dominante, fino ad arrivare (ideale conclusione di un percorso - quotidiano e di vita) alla stanchezza sussurrata di "Long Long Day", quando si è stanchi di tutto e tutti e non c'è altro da fare che togliersi le scarpe e infilarsi nel letto - SOLI. Perché nel frattempo la giornata ti ha stremato, ti ha preso tutto e se n'è andata, lasciandoti solo l'apatia incolore di una stanza vuota. Ti aveva promesso tanto, ma ora che le danze sono finite c'è solo il tempo per uno sbadiglio.
In mezzo, tutti quei frammenti di vita. I ricordi d'infanzia ("That's Why God Made The Movies"), il funk di una title-track registrata dal vivo come "Ace In The Hole", dolcezza e parole sincere, la meraviglia di imbattersi in una "Oh Marion" degna del Genio della melodia di cui stiamo parlando - ancora rassegnazione e disincanto, tanto per cambiare: "La voce è un travestimento, quando le parole non corrispondono all'espressione degli occhi...".
E come il protagonista in "How The Heart Approaches", finirete l'ascolto di questo disco con la sensazione di trovarvi dentro una cabina telefonica. Di notte. Sotto la pioggia.
E ancora soli.
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