Ciò che la mente persegue nelle sue analisi e costruzioni di mondi, ciò che insegue in terra e in cielo, non può essere che sé stessa”.

Paul Valéry

Che si può replicare a una affermazione come questa? Come la mettiamo con tutti quegli artisti che hanno tentato di trasporre i segreti della natura sul pentagramma, sulla pellicola o sul foglio di carta? Come la mettiamo con gli indagatori dell’ignoto, sia cosmico che umano, che tentano di persuaderci della genuinità delle loro visioni? Come la mettiamo noi, recensori di DeBaser? Noi che pretendiamo di restituire le emozioni o le sensazioni procurateci da un disco invitando i lettori a seguire le spirali del nostro pensiero.

Secondo l’affermazione di Valéry, ogni pagina scritta non solo parla solamente di chi la scrive, ma si riferisce sostanzialmente a soli elementi del fare letterario. Nel leggere una recensione dunque, nella migliore delle ipotesi, potremo scorgere solamente qualche frammento del pensiero dello scrivente costruito, auspicabilmente, entro una determinata correttezza sintattica, impreziosito da una certa ricchezza semantica e nobilitato da un peculiare stile.

Insomma, se è vero che quando ascoltiamo un disco o leggiamo un libro noi non facciamo altro che ascoltare o leggere noi stessi, la stessa cosa accade quando tentiamo di parlarne. Noi crediamo di presentare un disco/libro, ma in realtà discutiamo noi stessi.

La coscienza di questo immane cul de sac ha perseguitato Valéry per tutta la vita. Promettente poeta che, poco più che ventenne, aveva già pubblicato diverse poesie sulle riviste più prestigiose dell’epoca, che aveva ottenuto l’inestimabile favore di Stephane Mallarmé e che aveva dato alle stampe “Monsieur Teste” (strano romanzetto imbevuto di una feroce e lucida disillusione sul valore intrinseco delle arti) decise di piantare in asso, per sempre egli crede e sarà per vent’anni, tutto ciò che riguardasse la letteratura.

Proprio come Teste, sprezzante teorizzatore del silenzio, impossibile propugnatore del nulla e suo alter- ego,che sosteneva che “Quello che gli uomini chiamano un essere superiore è un essere che si è sbagliato. Per meravigliarsi di lui, bisogna vederlo, e per essere visto bisogna che si mostri. Mi dimostra così di essere posseduto dalla stupida mania della propria rinomanza. Per questo ogni grand’uomo è macchiato da un errore. Ogni spirito che viene ritenuto possente, comincia con l’errore che lo fa conoscere”, Valéry, con una coerenza rarissima nel mondo dell’arte, ritorna fieramente nell’ombra.

Ai richiami dei suoi confratelli e compagni di lettere oppone un sorriso sardonico, indifferente e matura la sua personale verità: “Lo scopo non sia di fare una certa opera, ma di fare in sé stessi colui che la faccia, che possa fare quest’opera. Bisogna dunque costruire da sé, dentro di sé quel sé stesso che potrebbe essere lo strumento capace di fare quella certa opera”.

Solo dopo molti anni di silenzio pubblico (bilanciato dalla mastodontica scrittura privata dei “Cahiers” che saranno pubblicati solo dopo la sua morte) e assecondando la pressante insistenza di André Gide, Valéry rientrò quasi per gioco nel mondo delle lettere pubblicando prima “Album di versi antichi” (raccolta di poesie giovanili “rinforzate” dalla presa di posizione della maturità) e poi “La Giovane Parca” (raffinatissimo monologo ininterrotto, costruito pensando al flusso e riflusso dell’onda che si infrange su una spiaggia).

E poi arriva “Charmes” (“Incanti”). E’ solo in queste ventuno composizioni che Valéry riesce finalmente ad intravedere un senso, per lui l’unico possibile, in una raccolta di poesie.

Proprio negli anni in cui la famosa “Recherche…” di Proust non faceva altro che raccontare (e romanzare) i vari gradini che avevano portato Marcel a maturare la decisione di scriverla, i pezzi di “Charmes” non fanno altro che ripercorre la “storia” della genesi di “Charmes”.

Ogni analogia, ogni simbolo, ogni figura retorica sottende il segreto cammino che, nella coscienza di Valéry, porta un’idea, una sensazione ancora vaga a mutarsi infine in una poesia completa; “Charmes” è un serpente che si morde la coda, è Narciso che riesce a toccare la sua immagine.

Aurore” dunque, che apre la raccolta, è il primo baluginare di un’emozione che desta l’attenzione del poeta; “Les Pas” (“I Passi”) sono quelli silenziosi e preziosi per cui un’idea comincia a svilupparsi poco a poco; “Au Platane” (“Al Platano”) rappresenta l’immobilità, la pazienza, il ciclo naturale necessario al poeta per distillare le parole; “La Pythie” (“La Pizia”) è la caricatura dell’ispirazione romantica e della creazione sgorgante che Valéry aborriva; la conclusiva “Palme” (“Palma”) è quella della “vittoria”, cioè un’opera coscientemente creata e plasmata da una Poetica esatta, matematica.

Bisogna dire che questo rigore, questa estenuante ricerca della perfezione semantica/sintattica costituiscono un elemento di debolezza per l’opera: in alcune poesie le immagini sembrano quelle prodotte da uno sterile prodotto sintetico e, personalmente, resto convinto che il sacro fuoco poetico non possa essere così tanto ingabbiato dalle fredde sbarre del controllo formale/razionale. Si rischia un distillato chimico, un corto circuito.

Gli episodi migliori sono i poemi [gli splendidi “Le Cimetière Marin” (“Il Cimitero Marino”), “Ebauche d’un serpent” (“Abbozzo d’un Serpente”) e “Fragments du Narcisse” (“Frammenti del Narciso”)] in cui, forse per la lunghezza, forse per il seducente continuum di rimandi fra ragione e ispirazione, sembra che Valéry esiti, che inconsciamente si lasci andare lontano da sé, in mari, giardini e boschi popolati da esseri e immagini che si impongono a lui, invece che subirlo costantemente.

Difficile avere un’idea precisa di Valéry, ma una cosa mi sento di dire con certezza: se diamo per buono quanto postulato da Paul Verlaine sui Poeti Maledetti, cioè poeti “Assoluti per l’immaginazione, assoluti nell’espressione”, Paul Valéry è stato l’ultimo, grande Poeta Maledetto.

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