Lo stile Mod o, per usare il nome intero, modernismo, è uno stile di vita basato sulla moda e la musica che si sviluppò a Londra, nei tardi anni Cinquanta e raggiunse il suo apice alla fine del decennio successivo, ma è diffuso e attivo anche ai giorni nostri. Il termine è nato per definire i fan del modern jazz. Le persone che seguono questo stile di vita sono conosciute come mod, e i primi esponenti abitavano principalmente nel sud dell'Inghilterra (fonte Wikipedia).
Paul Weller, a capo dei Jam, nei tardi anni settanta si rese protagonista del cosiddetto mod revival meritandosi l'appellativo, tuttora valido, di padrino del mod. Con l'arrivo degli anni ottanta, Weller sciolti i Jam, s'imbarcò con Mick Talbot nell'avventura Style Council dispensando una manciata di album di etereo soft-jazz sensibilmente venato di un'anima soul e lasciando con "Cafè Blue" un testamento in grado di reggere l'usura del tempo.
Per vedere un disco a suo nome bisogna attendere il 1992, anno dell'esordio omonimo. Non sembra passato poi così tanto tempo da allora, ma conti alla mano questo "22 Dreams" risulta essere il suo nono album autografo. L'ex Jam in tutti questi anni non ha mai snaturato più di tanto la sua attitudine verso una sorta di soul bianco con influenze vieppiù disparate dal funk al jazz, al pop, passando per un sanguigno ed energico rock.
Giunto alla soglia dei cinquant'anni dev'essersi guardato allo specchio riflettendo un'immagine che, a dispetto dell'età, trova riscontro in questi ventidue sogni filtrati attraverso ventuno canzoni cariche di una sana e smodata ambizione. C'è da perdersi, tanta è la carne al fuoco.
Si va dallo sferzante e vigoroso rock della title-track e di "Push It Along" alla psichedelìa di "A Dream Reprise" con tanto di nastri mandati in reverse, dalla classica ballata "All I Wanna Do (Is To Be With You)" allo spoken-word di "God", dal soul bianco di "Have You Made Up Your Mind" all'intimismo pianistico molto confidenziale di "Empty Ring" e Bacharachiano in "Lulluby Fur Kinder", da un morbido jazz nella strumentale "Song For Alice" alla struggente malinconia in "Where Ye Go". Si transita pure dalla balera in "One Brigth Star" e dal Cotton Club in "Black River".
Il pregio di questo lavoro sta proprio nella poliedricità e magniloquenza del progetto, ma se rovesciamo la medaglia potremmo dire che qui sta anche il limite. Di fronte ad una simile tempesta sonora per riuscire a bilanciare tutti gli ingredienti bisogna essere grandi chef, altrimenti con la prospettiva di piacere a tutti si finisce per non accontentare nessuno. In definitiva il risultato è adorabile anche se talvolta sfuggente ed ambiguo. L'impressione che l'ottovolante, a volte, incontri tratti di salita è palpabile, ma onestamente in quasi 70 minuti di musica non poteva essere altrimenti.
Non mancano le partecipazioni di lusso, da Noel Gallagher a Steve Cradock degli Ocean Color Scene, dall'ex Blur Graham Coxon fino al vecchio guru Robert Wyatt.
Sono pochi oggi giorno gli artisti di mezza età in grado di generare dischi di tal portata prendendosi l'onere (tanto) e l'onore (poco) di rimescolare le carte del proprio passato. Paul Weller dimostra di non sentire il peso degli anni e alla faccia della moltitudine di band sbarazzine che si susseguono con alterne fortune, mostra con vanto il proprio mezzo secolo di vita, rispolverando con sano e autentico fulgore il titolo di modfather.
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