Nella mia insaziabile voglia di musica nuova, accingendomi nel cercare materia prima nel mio negozio preferito non ho potuto non portarmi a casa un album che già tempo prima aveva avuto modo di incuriosirmi. Fino a quel momento di Paul Young, aprezzato cantante inglese molto in voga negli 80 (sopratutto in Italia), conoscevo solo "Love of the common people" (graziosa ma dopo un po' noiosa) e "Wherever I lay my heart (that's my home)" (dalla quale fui stregato). Avevo avuto occasione di scoprire tramite iTunes (benedetto sia lui e la Apple) l'album e dei consistenti spezzoni di 30 secondi di ciascun brano e... che dire? Curioso, eccentrico, grottesco... questi credo fossero stati i primi agettivi che mi uscirono di bocca a commento. Lo sapevo che prima o poi quel disco l'avrei portato nel mio tempio per ascoltarlo tutto, era solo questione di tempo. Successe. E durò la bellezza di 5 mesi.

Se qualcuno a questo punto, come per esempio qualche fanatico del rock col paraocchi, dovesse dubitare della sua bellezza (premetto, non epocale, ma fa la sua figura niente male) snobbandolo come "comune prodotto pop-plasticoso/commerciale anni 80" io gli suggerirei di mettere da parte il pregiudizio e di gettarsi a pesce in un'opera alternativa per molti versi. Il gusto per la musica black e il R&B di Paul Young risalta perfettamente in questa opera che conta 12 tracce una più curiosa dell'altra. Il disco per di più presenta arrangiamenti suggestivi, un groove mozzafiato, giri di basso (questo disco è famoso per il suo fretless) spiazzanti e innovativi, una parte vocale veramente di spessore, elettronica e synth usati con gusto e tanto (e non sostituiscono, come spesso invece accade, strumenti reali, fatto salvo per la parte ritmica). L'album parte con "Come back and stay", uno dei quattro singoli estratti. E' quella che si può dire la traccia d'apertura ideale. Un po' tutto il sound e il ritmo che caratterizzerà l'album è riassunto in una gradevole e per nulla banale canzone pop. Segue una cover (in effetti il disco è fatto quasi interamente di cover, ma questo non ne scalfisce la qualità) di una canzone dei Joy Division poco conosciuta ma molto incisiva, "Love Will Tear Us Apart", secondo singolo estratto. Segue la migliore in assoluto, "Wherever I Lay My Hat (That's My Home)" , cover di un brano soul di Marvin Gaye (la leggenda), dove si fanno molto notare l'uso del basso in flanger e l'ausilio di una delle prime drum machine Roland tr-808 (di questa macchina nel disco si farà molto uso, specie per la "meccanicità" dei suoi suoni, mai passati di moda ancora oggi).

La visita prosegue con "Ku Ku Kurama", brano un po' sottovalutato ma nel complesso particolare e stimolante. In questo disco ci sono due tracce in particolare che hanno attirato la mia attenzione per la loro "diversità" o "eccentricità". La title track, "No Parlez" è una di queste. Dopo un intro accattivante a base di basso e synth a mille e una strofa corta quanto bizzarra segue un coro altrettanto non-sense, che viene verso alla fine ripetuto fino alla nausea, per venire poi lentamente sommerso sotto i battiti elettronici della Roland 808, protagonista assieme alla voce di Young del brano sucessivo, "Behind your smile" (anche se si rivela un po' più debole rispetto a quanto ascoltato fino a questo momento). Segue poi il tormentone del disco, nonché singolo fortunatissimo in america e in UK, la natalizia (per atmosfera) e allegra "Love of the common people". Dopo aver passato un buon momento di ritmo (con un basso veramente pompato agli estremi) con "Oh women" si passa a "Iron out the rough spots", canzoncina a mio avviso un po' inutile, destinata a rimanere in disparte rispetto alla qualità generalmente elevata dell'album. Segue un lento, "Broken man", con ensamble d'archi sintetico e un po' patetico per una song di cui si può anche fare a meno. Ma la voce di Young salva la situazione come sempre. A seguire viene "Tender trap", che segue un po' l'andazzo di "Iron out the rough spots", ma almeno lo fa con maggior brio ed espressività. Una aggiunta piacevole, che però nulla toglie o aggiunge al valore complessivo dell'album.

Ciò che lo eleva a un disco quasi d'avanguardia è il pazzo brano di chiusura (che di brano in fin dei conti non si tratta e vi dirò perché). "Sex" è il titolo e tutto un programma: 7 minuti di sesso, sudore, calore ed eccesso. La song in realtà non è un brano ma un insieme di tante piccole parti, quasi una suite (ma più breve). Tra le percussioni moltiplicate a dismisura dai mille delay presenti, una batteria pompata e un basso che non molla la presa un secondo, la voce di Young si muove sinuosa fatta di toni gravi e falsetti acutissimi tra le coriste, che continuano a cantare "Sex! Sex! Sex!". Per non parlare di tutti i synth sovrapposti (e quel dannato flanger sul basso che non lo duplica, lo quadruplica!!!) che creano un'atmosfera viscosa e sudaticcia, adatta a descrivere la situazione e le voci e gli effetti campionati ripetuti all'infinito. E poi, sul finire, un ossessivo loop di chitarra che mentre tutto si dissolve come dopo un orgasmo lascia spazio a una frase di "Sex machine" di James Brown, prima di bloccarsi all'improvviso e chiudere l'album non in bellezza, di più! In sostanza a fine ascolto cosa ci si ritrova in mano? Di sicuro non l'oblio! Molte tracce le ho riascoltate all'infinito proprio perché quel che è di grottesco e di indecifrabile in questo disco l'avevo colto e mi piaceva.

E' un album commerciale, non ci piove, ma non lo trovo un buon motivo per snobbarlo. Visto che si è dimostrato forte non solo nei singoli ma anche in tutta la struttura, non mancando mai di coerenza e rimanendo sempre su livelli molto alti per un album pop (nonostante delle piccole sviste per strada). Un prodotto consigliato a chi ama il R&B, gli anni 80, la musica pop o più semplicemente la buona musica. E perché no, anche un metallaro duro e puro può apprezzarlo, chissà...

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