L’attesa per questo nuovo (undicesimo) lavoro dei Pearl Jam, “Gigaton”, era davvero spasmodica.
Sicuramente ha pesato la lunga pausa tra un disco e l’altro (“Lightning Bolt” risale ad ormai sette anni fa), interrotta solo dal mediocre singolo “Can’t Deny Me”, non a caso non incluso nella tracklist del nuovo album. In aggiunta vi è un sorprendente cambio di produttore: via Brendan O’Brien, che comunque suona alcune parti di tastiera nell’album, e dentro Josh Evans, che qui produce e mixa. Per non parlare di un primo estratto che ha fatto parlare tantissimo di sé.
Si tratta di “Dance Of The Clarvoyants”, un pezzo in piena zona Talking Heads dominato dal basso, qui sorprendentemente suonato da Stone Gossard. Il brano ha letteralmente scosso dalle fondamenta la nutrita fanbase della band, ed ha spaccato a metà il resto del pubblico. “Dance”, in ogni caso, non è affatto indicativa della strada complessivamente presa dall’ormai classica band statunitense.
“Gigaton” difatti, nonostante una paventata svolta verso territori inesplorati, è un disco quintessenzialmente Pearl Jam. Non è il sospirato ritorno alla freschezza giovanile di “Ten”, “Vs.” e “Vitalogy” (ci mancherebbe altro), e nemmeno un seguire le linee guida classiche di dischi come “Backspacer” e “Lightning Bolt”. E’ lontano anche dalle mire di ritorno alle origini dell’”avocado” del 2006. E’ quindi un animale a sé stante, che cerca di aprire nuove strade mantenendo un marchio di fabbrica ben evidente sulla carrozzeria.
Sono ancora tanti i brani in classico stile Pearl Jam: il dittico iniziale, interamente a firma Vedder, è una bordata ben assestata. “Who Ever Said” apre (come d’abitudine per Eddie e soci) con grande energia, con McCready che si lascia andare in un ispirato solo dai sapori new wave ed aiuta a costruire un possente finale in crescendo; il secondo singolo “Superblood Wolfmoon” è un classico garage rock che rimanda al sottovalutatissimo “Backspacer”. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo “Never Destination” (punk rock sempre a firma Vedder, che in “Gigaton” offre i pezzi più rockeggianti del lotto).
Per quanto riguarda invece le novità, si parte dal terzo singolo “Quick Escape”, per distacco il miglior brano del disco: un delizioso brano co-firmato da Vedder ed Ament, con quest’ultimo che snocciola un riff a metà tra gli U2 periodo “Zoo Tv Tour” e certe atmosfere zeppeliniane. Troviamo poi “Alright” (altra perla di Ament, ispiratissimo), ballad atmosferica ed oscura alla “Parting Ways”, e la lunga e floydiana (con vachi accenti springsteeniani) “Seven O’ Clock”, chiusa da un inusuale falsetto di Vedder. Il grunge di “Take The Long Way” (opera di Matt Cameron) è un sentito omaggio ai mai dimenticati Soundgarden, con Megan Crandall delle Lemolo ai cori, ed apre la strada a “Buckle Up”, unico contributo al disco di Stone Gossard, che opta per una sorta di ispirata rilettura di “We Walk” dei primissimi R.E.M.
Il trittico finale è una specie di mini-disco nel disco che rimanda alle atmosfere di “Into The Wild”, indimenticato esordio solista di Vedder: “Comes Then Goes”, forse dedicata all’amico Chris Cornell, è una super evocativa ballata per chitarra e voce di quasi sei minuti, interamente costruita sulla vocalità di Vedder. “Retrograde”, ballad alla “Sirens”, risale alle primissime sessioni per il disco tenutesi a Seattle tre anni fa; chiude “River Cross”, unico brano già presentato dal vivo nei live solisti del frontman, un pezzo bellissimo che incanta con il suo organo e la voce caldissima di Vedder e si rivela una delle migliori chiusure di album nella produzione della band statunitense.
“Gigaton” è un disco bellissimo, ed un’ottima apertura per una nuova fase dei cinque di Seattle. Sperando non ci vogliano altri sette anni per un nuovo lavoro.
Brano migliore: Quick Escape
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