Gigaton, ovvero Lunga Vita a Jeff Ament
Giusto un paio di premesse. Amo la musica alla follia. La musica è l’amore della mia vita e trattasi, appunto, di sentimento, non di competenza tecnica. Ne consegue che la recensione è scritta senza pretese di usare i termini giusti, i riferimenti colti, i paroloni da giornalista.
E questa era la prima premessa. La seconda è che i Pearl Jam sono (stati) la mia band preferita. Sono nata nel 1975, per cui basta fare due conti e usare un po’ di immaginazione, per vedermi lì, nella prima metà degli anni 90, una dei tanti ragazzi in piedi lungo i binari di una stazione ad aspettare il treno per il liceo e poi per l’università, con i jeans dentro gli anfibi, la camicia di flanella a scacchi, e il walkman con, a turno, Ten, Bleach, Jar of Flies, con il corpo in Toscana ma la mente e il cuore a Seattle.
Evito di ripercorrere cosa è successo gli anni dopo, sia a me (perchè non interessa a nessuno) sia al grunge e al rock (perchè lo sanno tutti), e arrivo a Gigaton.
Il mio livello di aspettative rispetto a questo album era pressoché zero. Per quanto mi riguarda l’ultimo disco dei Pearl Jam che mi è piaciuto in toto e che mi ha emozionato è stato Riot Act. La produzione successiva (4 o 5 album, potrei anche sbagliarmi, insomma da quello con l’avocado a quello col fulmine) mi ha lasciato tra l’indifferente e l’indignato. Ho comunque continuato a seguirli, sopratutto dal vivo, in modo tale da tener vivo l’amore, anche se i live dello scorso anno (di Vedder solo) e quelli del 2018 (della band) un pochino perplessa mi ci hanno lasciato….
Quindi forse è per via di questo disincanto che, lo dico subito, Gigaton mi ha piacevolmente sorpreso. Dopo una settimana di ascolto sono giunta alla conclusione che, per quanto mi riguarda, quest’album, seppur con i suoi limiti e i suoi difetti (non pochi) è il più ascoltabile degli ultimi 15 anni. Dividerei le tracce in tre (personalissime) categorie: quelle che mi convincono, quelle che nì, e quelle che non ci siamo proprio.
Comincio da “Quelle che mi convincono”:
Dance of the Clarvoyants. Il singolo che ha anticipato l’uscita di Gigaton è proprio un bel pezzettino di canzone, dance, come dice il titolo, quasi sperimentale per una band come i Pearl Jam. Mi aveva fatto sperare in un’opera “nuova”, mi aveva fatto sperare che i nostri stessero esplorando territori mai battuti prima e ci potessero regalare nuove gioie. Liriche non banali, sound tra new-wave e post-punk, perfetto per essere ascoltato da soli ma anche in un club, che “tira” fino all’ultimo secondo, trascinato da una bella linea di basso e un cantato sulle tonalità che ora come ora sono quelle perfette per Vedder (una menzione speciale per il verso “I’m positive, positive, positive!” Che chissà cosa doveva significare quando è stato scritto ma in tempi di Covid significa una cosa sola… e sarebbe bello sentirlo cantare da Trump… ops..)
Quick Escape: sarebbe piaciuta a Chris Cornell, questa canzone. Forse più a quello degli Audioslave che non a quello dei Soundgarden, ma insomma siamo chiaramente in zona Emerald City. Ciononostante, Quick Escape non fa quell’effetto un po’ stantio che potrebbe fare un pezzo spudoratamente grunge suonato nel 2020 da degli over 50. Suona “fresco”, suona credibile. Jeff ha scritto una canzone che a mio parere non è solo bella in senso relativo (cioè dentro un disco come questo) ma più in “assoluto”, ovvero nel panorama generale della produzione dei Pearl Jam.
Alright: il terzo pezzo dei tre che mi convincono è di nuovo scritto da Ament. E questo ragazzo del Montana mostra qui un lato dei molti che ha dimostrato negli anni di avere. Il testo di Alright è delicato, intenso, dolce senza essere stucchevole (impresa ardua per un americano, perdonatemi la generalizzazione). E, di nuovo, la musica e le liriche di Jeff offrono a Vedder l’opportunità di cantare al meglio.
Passiamo al gruppo delle tracce “Nì”:
Who ever said: brutta brutta non è, ma la trovo “tiepida”. Messa poi all’inizio del disco fa pensare che la band (o Vedder, tanto ho sempre pensato che decida tutto lui) abbia voluto mandare una serie di avvertimenti agli ascoltatori: Ehi, questo è un disco rock. Ehi, abbiamo ancora energia e rabbia in corpo… dal mio punto di vista, e come direbbe mia mamma, ogni cosa al suo tempo, quindi ormai dai Pearl Jam non mi aspettò né rabbia né rock, men che meno se (inevitabilmente) spolverati d’argento. E quando Eddie scrive testi filosofeggianti, non mi convince.
Superblood Wolfmoon: la prima volta che l’ho sentita l’ho trovata davvero orrenda. Devo dire che dopo una dozzina di ascolti l’ho almeno in parte rivalutata. E sostanzialmente per due motivi: per il giro di basso finale (groovy al punto giusto) e perché apprezzo il tentativo di fare comunque qualcosa di un po’ “diverso”.
Seven o’Clock: niente di che proprio. Non che sia inascoltabile; la puoi anche ascoltare, tanto te la dimenticherai presto.
Take the long way: brano di Cameron, e che trasuda Cameron dall’inizio alla fine. E io considero Matt (insieme a Jeff) la parte migliore della band, e del disco. Ciononostante, il brano per quanto mi riguarda non va oltre la sufficienza. E' forse l'unico sussulto della seconda parte dell'album (e per questo sta nella seconda delle mie tre categorie), ma non si può fare a meno di pensare che sia una specie di "riempitivo" (pure piuttosto lungo)...
Prima di passare all’ultima categoria (quelle che non ci siamo proprio), cito Comes then goes, e la metto in una classe a sé. Semplicemente perchè metterla tra le brutte brutte potrebbe essere eccessivo, anche se mi lascia decisamente perplessa. Il pezzo piace, e piacerà, sarà cantato dal pubblico ai concerti, con le torce dei cellulari accesi, perchè alla gente chiudere gli occhi e dondolare piace un sacco. Va detto che Eddie la canta benino, e la suona anche benino, ma sia il testo che la melodia suonano stantii. In sintesi, una ballad in salsa ranch, orecchiabile tanto da suonare ruffiana.
Categoria “Non ci siamo proprio”:
Buckle up. Ogni tanto Stone Gossard scrive una ninna nanna (per i figli? I nipoti? per le sue chitarre? Non lo sappiamo). Buckle up mi è sembrata subito la brutta copia di Around the Bend (che non aveva bisogno di una brutta copia, essendo già bruttarella di suo). Va detto che, comunque, se l’intento di una ninna nanna è quello di far addormentare, l’esperimento è riuscito.
Never destination: non ho granché da dire, la canzone è veramente poco degna di nota. In più di un momento i Pearl Jam citano se stessi, e al tempo stesso introducono effetti che fanno veramente strano (sembra di sentire dei fiati, e perfino una voce femminile dietro)…
Retrograde e River Cross chiudono il disco, ed entrambi mi lasciano piuttosto basita. Entrambe scritte da Vedder, un Vedder che sembra rimasto intrappolato tra le lande di Into The Wild e l’organo che si porta sul palco negli show da solo, un Vedder che ha raggiunto l’età della saggezza, o della rassegnazione. Un Vedder che ha perso molta della sua estensione vocale, che se sale verso note troppo alte non ci arriva (e quella è l'età, non gli se ne può fare una colpa) ma che se scende verso quelle basse indugia ormai in vocali tremolanti e consonanti eccessivamente aspirate (e questo è manierismo, e mi verrebbe di non perdonarglielo). Un Vedder che probabilmente sogna di perdersi nella natura, vivere da surfista solitario, mentre in realtà si trova a recitare la parte vita di icona sopravvissuta del rock nonché marito di una signora che passa le giornate a postare video delle figlie su Instagram e che prima gli cotona i capelli poi lo porta a Los Angeles ad assistere alla notte degli Oscar.
Quindi. In definitiva, tolti i pezzi in questa terza categoria, trovo il resto del disco ascoltabile anzi a tratti gradevole. Gli darei una piena sufficienza il che, ripeto, potrebbe dipendere sia dal suo valore oggettivo che dalle mie basse aspettative.
Gigaton è il disco di un gruppo di musicisti, più che di una band, e si sente. Un disco club sandwich, con molti strati, farciti con quello che si è trovato, a volte in frigo (tra la roba fresca) a volta in dispensa (tra gli avanzi di spese a lunga conservazione?). Ognuno ha messo i suoi ingredienti, l’impressione è che i musicisti non si siano mai trovati insieme nella stessa stanza se non (forse) per girare i video. Questa distanza tra di loro, che sembra svanire quando poi i ragazzi salgono su un palco, personalmente non mi indigna. Credo anzi sia stato l’antidoto allo spettro dello scioglimento in tutti questi anni. I Pearl Jam sono il classico gruppo in cui il divario tra il carisma di un membro e la somma del carisma di tutti gli altri è siderale. Avere attraversato 3 decenni non deve essere stata una passeggiata, e qualunque sia stato lo stratagemma che ha fatto conservare un equilibrio (ad esempio farsi ognuno la propria vita) lo benedico.
I Pearl Jam non sono i Radiohead, che tutto quello che avevano da dire sul rock lo hanno messo in 4 album magistrali e poi si sono buttati su altro, e anche quest’altro gli è venuto da dio. I Pearl Jam, anche nel caso in cui avessero realizzato di non aver molto altro da dire, non sanno o non vogliono provare a fare altro. Per questo non mi aspettavo niente da Gigaton e non mi aspetto niente dai futuri album, se ci saranno. Album a parte, restano una band che dal vivo è tra le migliori, e che ha nella propria discografia capolavori che, almeno per la mia generazione, trascendono dalla categoria della “canzoni”, pezzi che ci sono entrati nel DNA e ce lo hanno mutato, trasformandoci in quelli che furono un tempo adolescenti tormentati e che oggi sono 40-45enni nostalgici e diffidenti di oggi. Nostalgici perchè (con l’eccezione di coloro che furono giovani negli anni ’70) siamo probabilmente la generazione che ha goduto della musica migliore al momento giusto in questo secolo; diffidenti perchè bisognosi di nuove emozioni musicali, ma il panorama attuale è quello che è. E quindi ci attacchiamo a cosa ci è rimasto, a quello che né l’eroina né i suicidi si sono portati via. Ci attacchiamo ai Pearl Jam, agli Smashing Pumpkins, perchè ci ricordano chi siamo stati e ci aiutano a capire chi siamo diventati. Gigaton fa la sua parte, in questo complicato tragitto esistenziale. Il grunge è morto, trionfalmente, e per quanto mi riguarda è morto anche il rock, e il suo funerale viene celebrato ogni volta che dei 70enni che si ostinano a portare i capelli lunghi salgono sul palco (detto questo, Keith io ti adoro e tu lo sai). Dobbiamo decidere cosa ci fa soffrire di più: la candela che si spenge in un soffio, nel momento della massima fiamma (come Kurt, o come Layne - è pur sempre il 5 aprile oggi), o quella che si estingue lentamente, come i Pearl Jam degli ultimi anni. Anzi, io ho già deciso.
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