C'è odore di America ad un concerto dei Pearl Jam, sin da quando nel '92 apparirono ad un memorabile unplugged per la meno memorabile Mtv. Un'altra "Desert Storm" di quegli anni, ancora giovani abbastanza da rendere viva l'ideologia politica del rock, dopo il letargo letale dei cervelli degli anni '80, dai quali siamo tutti usciti vivi per miracolo. Indietro fino alla nascita, alle radici dell'idea (Ecco il mio fucile, uomini! mi batterò con questo) ed invece non era nient'altro che "Alive" unplugged: Jack Endino si rifiutava sempre di parlare di "grunge", lui preferiva chiamarlo "new american rock & roll", dimostrando di avere l'occhio lungo.
Qualche secolo dopo, cioè adesso, al concerto all'Arena di Wembley insieme a diecimila altri nostalgici il tempo s'è fermato: non importa se fosse l'inizio o la fine dell'ideologia, la verità è che dovunque siamo stati, siamo gli unici ad essere invecchiati. E' sempre uguale la politica, sempre la stessa guerra, lo stesso deserto e lo stesso stormo, sempre uguale m'è pure sembrato il contro-attacco, con Tony Blair definito "il passeggero di un guidatore ubriaco - Bush" addirittura come primo bis, un solo acustico di nome "No More War" di chiara matrice spingsteeniana ("E' tutto nato da una conversazione sull'inferno", ci fa sapere Eddie). A parte questo, il concerto ha visto la resa di tante (probabilmente troppe) canzoni recenti, b-sides e outtakes (su tutte la tiratissima "Down"); alcune composizioni (giustamente) poco ricordate ("Lowlight") e ballate di luce cupa ("Indifference", "Immortality"), prima di chiudere con una lunghissima coda di "Rocking In A Free World" di Neil Young.
Non una canzone dal secondo lavoro "Vs", solo una da "Ten", parecchio da "Riot Act" e dall'ultimo omonimo. Musicalmente dimostrano di essere una band ancora di talento. I Peal Jam di oggi assomigliano sempre di più agli The Who: Mike McCready si sbraccia come un dannato per un posto in Paradiso; per adesso s'è messo ad aspettare: i posti per Santi chitarristi sono già tutti occupati e all'impedi non ci vuole stare.
C'è odore di America ad un concerto dei Pearl Jam; c'è l'odore degli anni di chi, come colui che scrive adesso, aveva esattamente l'età giusta (la metà di qualsiasi sia l'età) per urlare a squarciagola "Black" nei party sfigati da qualche parte nello scorso millennio: esattamente il giorno che ci rendemmo conto di essere usciti vivi per miracolo dagli anni '80. Il grunge è stato probabilmente il movimento musicale piu' importante dopo il punk, genere quest'ultimo che di musica non conservava molto.
Cercando di dimenticare i vari Festival commerciali europei, erano quasi dieci anni che i Pearl Jam non suonavano in un contesto - come quello dell'Arena di Wembley - perfettamente adatto al loro status. La voce di Vedder è oggettivamente fantastica, come un ubriaco epilettico; gli assoli di McCready ("Crazy Mary", "Why Go" - quest'ultimo suonato con la chitarra dietro la schiena) sono ciò che resta (a seconda di quanta umanità ci resti) della migliore musica che si sia potuta supporre possibile dopo la morte degli anni (musicali) di piombo (1981-1989): l'epopea grunge (o American rock & roll) è la bellezza lacerante di "Marker In The Sand", scavata nella sabbia dei ricordi.
E' solo la devozione del fan che evita ai ricordi di trasformarsi in un'apoteosi dell'auto-indulgenza collettiva? Oppure la verità è che ci sono solo i ricordi e tutto il resto non è reale?
p.s.: Un doveroso grazie a donzaucher, a cui ho preso a voler bene come un fratello, non solo perché viene fino a casa mia per accompagnarmi ai migliori concerti, ma soprattutto perché mi regala sempre il biglietto (costosissimo: alla faccia della guerra alla Ticketmaster!).
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