Dopo il successo planetario del loro album d'esordio "Ten" i Pearl Jam entrano nella fase più tumultuosa della loro carriera: nessun videoclip promozionale per i singoli, la battaglia contro Ticketmaster iniziata l'anno dopo questo album e la morte di Kurt Cobain, avvenimento che avrebbe irrimediabilmente influenzato il magnifico "Vitalogy". Ma fra questi due album c'è appunto "Vs.", a volte considerato di transizione ma per me un disco alla pari degli altri disconi della band.

La struttura delle canzoni è semplice, orecchiabili e tranne un paio di eccezioni dalla durata contenuta, sembrerebbe quasi un disco da passaggi radio a gogò, rock da stadio, se non fosse per la patina di oscurità che invade artisticamente ogni canzone. L'impatto dell'album viene aiutato anche dalla produzione di Brendan O'Brien: un sound diretto, quasi garage, dannatamente duro e realistico; un sound che si sposa alla perfezione con i temi trattati da questi giovani ragazzi di successo.

L'album si apre con due pezzi a rotta di collo, ma non per questo da lasciare in disparte ed etichettare come "minori", in quest'album ogni canzone ho motivo di esistere; "Go" e soprattutto "Animal", con i loro riff, i loro outro scatenati e quei testi minimali che dicono molto più di mille parol,e sono un perfetto preludio per il primo capolavoro dell'album: "Daughter", canzone che potrebbe essere etichettata come ballad se non per il fatto che la chitarra acustica ed elettrica collaborano per creare un sound inquietante, annichilente, portandoci in un'altra storia di ordinaria disperazione in una qualsiasi cittadina americana. Il modo in cui Vedder tratta la protagonista di questa canzone è comprensivo e rabbioso, dando voce a tutta la sua tristezza e insicurezze. L'album prosegue con un ironico attacco ai redneck americani, "Glorified G.", forse l'album più spensierato dell'album come stile e per la sua ironia. "Dissident" è un bellissimo momento di riflessione per calmarsi e pensare ai dilemmi dell'esistenza, alle scelte che influenzano ogni nostro momento e ai mali che dobbiamo comunque affrontare, non importa quale strada imbocchiamo, non si può scappare completamente dal male dell'esistenza; la melodia, urlata dalle chitarre e la voce di Vedder che ha un gran crescendo emotivo, sfumano alla grande nel secondo capolavoro dell'album (un giudizio molto personale): "W.M.A.", sei minuti di line-up di basso che non muta di una virgola, la batteria di Abruzzese che martella quasi come se fosse un rito voodo, la voce alleggiante di Vedder e quel dannato testo: un attacco perfetto all'americano medio, "he won the lottery by being born, big hand slapped a white male American. Do no wrong, so clean cut, dirty his hands, it comes right off.", un trip psichedelico oscuro e funkeggiante, un perfetto intermezzo per l'album. Si torna sul freddo asfalto invernale, la stagione suggerita dalla copertina dell'album, nella maniera più dura possibile: "Blood", pezzo che ricorda certe sfuriate al limite dell'infarto dei Nirvana, un incedere martellante e inesorabile che come suggerisce il booklet parla di un eroinomane, la disamina dei mali americani continua. E si entra in un altro capolavoro viscerale, che ricorda certi pezzi emocore dell'epoca, un gioiello di emozioni dal cuore punkeggiante: "Rearviewmirror", un semplice riff, una storia di fuga dai propri scheletri nell'armadio, un'epica rivalsa nei confronti della vita. "Rats" è un piacevole pezzo sarcastico, una pura alchimia rock, prima di farci ascoltare la mia canzone preferita del gruppo: "Small Town", ballata acustica semplicissima, sei accordi che provengono dall'acustica di Gossard, una voce piena di Vedder e qualche dolce riff di McCready, la semplicità vince ed il capolavoro è fatto, un struggente affresco di un'altra vita qualsiasi che di colpo trova i suoi ricordi ad attenderlo e sconvolgerlo in un vortice di emozioni e rimpianti, una canzone che non si può descrivere per quanto è perfetta nella sua semplicità. "Leash" è un altro brano di puro rock 'n roll che personalmente non ho mai adorato, ma la conclusione dell'album rialza l'asticella: "Indifference", tipico brano dei Pearl Jam, un down-tempo sinuoso e caldo, che per la sua calma e le note di tastiera ricorda alcuni pezzi dei Doors, una conclusione azzeccatissima.

So che il track-by-track non è molto ben visto, ma volevo sottolineare tutto ciò che penso di questo album, non mi considero un fanboy dei Pearl Jam ma davanti a certe opere un pezzo di cuore si spezza, e inevitabilmente la soggettività e i pensieri personali trionfano sul resto. Una nota di merito và anche al bel booklet, dallo stile scarno e oscuro, con immagini abbozzate e foto di paesaggi freddi e desolati.

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