La prima volta che ho ascoltato “The Jeweller” ci son rimasto secco, la seconda mi son sentito come un bambino, la terza invece ho cantato storpiando le parole, un po’ perché non conoscevo il testo, un po’ perché mi sembrava una formula magica.
Ecco, io non so come dirvelo, “The Jeweller” è tristissima, ma il suo ritornello è come il sorriso della musa e il sorriso della musa arriva anche negli angoli più sperduti. Poi, certo, per scovare certi luoghi, bisogna avere una lanterna un po’ speciale, tipo l’eremita dei tarocchi o tipo Tom Rapp, eroe mezzo mistico e mezzo smandrappato.
Oppure quello che serve è una sorta di zoom sfasato che prima stringe e poi allarga verso il cielo. Il piccolo, il grande... e poi il grande e il piccolo insieme…
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“The Jeweller” è una storia di solitudine e devozione, fai conto un tizio che passa le notti a pulire vecchie monete, sa che può farle brillare ma anche che non può togliere loro i graffi. Bene, quelle monete sono come le canzoni di questo disco, ovvero luminose e piene di cicatrici. Le lacrime del resto assomigliano a certe stelle.
Poi, dopo tanta bellezza, tocca star fermi un giro nell’incanto da due soldi di traccia 2. Beh, son soldi spesi bene, questo è l’autogrill smandrappato prima di proseguire il viaggio o, addirittura, l’orto dei miracoli dove quei due soldi raddoppiano o si fanno polvere d’oro. Ciao ciao, gatto e la volpe
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“Rocket man”, parte sospesa, poi s’insinua la melodia spaccacuore, una sorta di delicatezza ultraterrena, qualcosa che arriva sottopelle e ti porta esattamente qui, esattamente adesso. Non sempre è necessario fare tanta strada.
Di “Song about a rose”, canzone su una rosa, oppure sulla sua ombra, potrebbe bastare il titolo. Del resto che potremmo mai dire? Che è l’ennesima melodia impossibile per voce incerta? Che bisogna esserci nati per dar quell’impressione di purezza e ingenuità?
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Poi col track by track facciam pure basta. Tanto tutto il disco sta dentro le coordinate di uno spiritato e talora aggraziatissimo folk da camera. Con tutta la sua strumentazione “seria” (clavicembalo, oboe, flauto) che non si da comunque la minima importanza.
Una bellezza naif, un po’ dolce e un po’ gracchiante, sul solco dei primi capolavori, ma in una veste più cantautoriale e folk.
Un tempo infatti tutto si inceppava e rimaneva, chissà come, a mezz’aria e così sentivi subito la nota pazza, il quid astruso e folle di quegli anni irripetibili. Poi, certo, c’era anche la malinconia, ma arrivava dopo, anticipata com’era da quel magico stupore.
Qui no, qui la malinconia arriva subito. E, se prima ci voleva mezzo litro di ambrosia, adesso invece ne basta una goccia.
Ah, pare che a “Rocket man” si siano ispirati Bernie Taupin e Elton John per la loro canzone omonima. Non era lo stesso campionato, mi sa...e nemmeno lo stesso fottuto campo da gioco…
Trallallà…
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