[L'apprezzato DeRecensore wwwhatemoornet ci segnala che per questa recensione Damaskinos si è ispirato ad una recensione dello stesso wwwhatemoornet pubblicata su un altro sito.]
Per le mie orecchie il 2004 non poteva finire meglio; nel giro di pochi giorni si sono sorbite Comets On Fire, Mastodon, Isis e questi fantastici Pelican. Musiche ampie, stridenti, dinamiche, ruggenti…
In un’epoca in cui siamo abituati a sentire voci lamentose e nostalgiche c’è qualcuno che ancora taglia di netto la testa al toro. Ebbene sì cari miei, i Pelican la voce non la usano proprio, ma lasciano cantare gli attrezzi del mestiere, benissimo fra l’altro. E dopo averli sentiti mi viene in mente The Ballad Of The Ancient Mariner di Coleridge, non per una vena che scoppia di decadenza romantica, ma perché nel poema dell’inglese ho scoperto la nobiltà del pellicano, che, pur nel suo apparire goffo, trova il coraggio di sacrificare sé stesso strappandosi brandelli di carne dal petto per nutrire i propri piccoli in tempo di magra.
Sto parlando di un disco di sacrificio e di apertura. Se poi l’intento è quello di catalizzare sentimenti di sofferenza, bè dopo aver superato di gran lunga la doppia cifra di ascolti, non mi pare proprio. La chiamerei piuttosto ruvidità, brutalità distorta, ingenua baldanza che sudando si trasforma in qualcosa di semplicemente epico. Il condimento del testo, a questo punto, sarebbe davvero inutile.
Australasia contiene sei canzoni. Si potrebbe dire che il perfetto riassunto dell'album risieda nella quarta traccia, GW, in quei tre minuti di riff pulito che prima trasfigura in una distorsione che urla "stoner stoner" a più non posso, per poi ricevere un incantesimo psichedelico nella parte finale. Ma sarebbe solo un improprio schematismo. Questo è un album che non si può ingabbiare.
Infatti all'interno di Australasia coesistono numerose entità: si va dal post-rock influenzato dallo stoner e dal postcore di NightendDay al "quasi-metal" di Drought in cui ritmiche massicce e sonorità molto in-your-face portano alla mente gli Opeth del fu Blackwater Park. In Untitled si respirano persino un po’ di Mogwai. Spettacolare la title track, portatrice di un paio di riff indimenticabili, sia quando viaggia ad alto regime sia quando rallenta per virare verso soluzioni atmosferiche e rilassate.
Siamo di fronte a stregoni del riff-metal, a una confidenza strumentale che può avere solo paragoni eccelsi come gli Isis nel riuscire a creare panorami stoner di estrema immaginazione sonora. Io, charmed by Kyuss e Black Sabbath, ho deciso di prostrarmi anche verso di loro.
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