Ritengo che il rapporto tra il rock (ci metto dentro anche il metal) e il male, quello teorizzato e temuto dal genere umano, nella maggior parte dei casi sia stato un rapporto costruito. Nel senso che ci ho visto sempre un bisogno dentro (nei casi migliori, quelli peggiori non meritano le mie attenzioni), il dovere di dimostrare qualcosa, la necessità di opporre al peggio della società il peggiore dei suoi incubi. Non mi piacciono molto le idee che nascono per reazione, ho sempre preferito le idee che nascono e basta. Meglio ancora le attitudini, quelle eliche di dna che uno casualmente si ritrova dentro e che un giorno segneranno anche i tratti somatici della personalità. In maniera del tutto naturale.

I Pentagram, pur non avendo mai approfondito a dovere, li ho sempre ritenuti ottimi musicisti con qualcosa da dire e da dare. Il genere notoriamente praticato mi ha tenuto un po’ alla larga dalle loro produzioni ma, quando ho visto la copertina del doppio cd "First Daze Here Too", ho deciso istintivamente un acquisto a scatola chiusa. Foto seppiata di quattro capelloni a spasso, nessuno guarda l’obiettivo, aria da hard rockers senza posa e un’atmosfera di latente esoterismo. In pratica proto metallari (e del termine proto, in questa recensione, ne potrei abusare) un po’ hippie.

Quando insacco il primo cd nel lettore mi rendo conto, dopo un ascolto integrale e attento, che quella scatola poteva anche restare chiusa. Ho avvertito una certa suggestione malefica che ho subito razionalizzato. “È una suggestione punto e basta” mi sono detto. L’ho riascoltato ed è venuto fuori un bouquet crisantemico che ha fatto sfoggio di diverse impressioni. Inizio da quelle musicali. Con grande sorpresa, nonostante la copertina mi avesse già fatto costruire un certo tipo di idea, queste 22 tracce (tra rarità e inediti) registrate dai Pentagram a cavallo tra i due lustri del 1970, non hanno praticamente nulla a che vedere con il doom metal. Al contrario di ciò che si potrebbe pensare, questa è una raccolta hard rock. E anche di ottima qualità. Mi hanno detto che la precedente raccolta First Daze Here, presentava una selezione di brani notevolmente influenzati dai Black Sabbath. Qui, invece, la vena sabbathiana non ha una portata maggiore rispetto a quelle che incanalano la linfa dei rimandi a band come Deep Purple, Led Zeppelin e Stooges. Con un senso di sorpresa aumentata (parafrasando il presente), ho anche scoperto anche che i Pentagram avevano sicuramente ascoltato Beatles (almeno quelli del White Album), Doors e Rolling Stones, prendendo le dovute distanze musicali. Un crogiolo di sonorità (a volte sono presenti pure ritmiche psichedeliche) interessante per il valore assoluto storico che queste canzoni esprimono. È evidente che il lavoro sporco in studio di Bob Liebling e soci sia da considerare una sperimentazione fondamentale che ha contribuito a generare il genere metal, senza aggettivi prima.

Il sound rifulge di quella magnifica archetipicità anni 70. Gli strumenti pesano tutti e si sentono bene, aggressivi e taglienti. La voce sciamanica di Liebling conduce danze che all’epoca dovevano essere alternative, interpretando testi che parlano chiaro, senza allusioni o visioni. Ma centrano contenuti in maniera specifica, tra il tema della sofferenza e, in un certo senso, l’elogio della follia. Un songwriting decisamente maturo e bohemienne, composto in quella parte d’America che, con pretenziosità britannica, in questo caso si può dire si affacciasse sull’Europa.

Tirando le somme, dopo l’ascolto del secondo e più ricco cd (solo quantitativamente, tra i due preferisco il primo) posso dire che First Daze Here Too è un concentrato di hard rock anni 70 maledetto e orgiastico. E qui ritorno al punto di partenza. Quella dei Pentagram è una spontanea e naturale propensione a fare musica in cui si annida il male senza bisogno di renderlo manifesto con testi allusivi o presenza scenica sanguinolenta e costruita da un make up artist. Evito il track by track che sarebbe folle, ma cito la prima di tutte "Wheel Of Fortune", rock duro misantropico e nichilista, distaccato con calibrazione perfetta. Sarebbe la perfetta introduzione ad un rito di gruppo di quattro decenni fa, che tra droghe e allucinazioni porterebbe al sesso di gruppo. Senza droghe resta comunque un ottimo esempio di come si fa musica che non ha bisogno alcuno di esser supportata da elementi scenici grotteschi e ridondanti per ottenere quell’effetto di straniamento e di mistificazione che può avere solo ciò che artisticamente possiedono la pittura e la poesia.

Questa raccolta è vivamente consigliata. Non sarà, oggettivamente, la storia dell’hard rock – quella sappiamo bene chi l’ha scritta – ma rappresenta un aspetto qualificante delle produzioni mondiali negli anni 70.

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