Come prendere a schiaffi la tecnologia non senza provare un forte senso di smarrimento e paura. Ecco di cosa parlano gli album dei Pere Ubu: in quel delirio di tastiere allucinogene, chitarre sbilenche, ritmi ubriachi e spericolate evoluzioni canore si nasconde una rappresentazione astratta delle angosce della cultura operaia.
Sebbene priva di intenti politici, l'opera della band possiede, oltre ad una statura artistica di portata biblica, un forte e potente valore sociologico: le liriche assolutamente folli e pregne del dadaismo più disgregato, i reperti di musique concrète che fuoriescono talvolta dal magma art-punk del sound della band e l'approccio assolutamente irregolare e privo di barriere di Thomas al canto sono elementi simbolici che suggeriscono inequivocabilmente ansia, terrore, isolamento e un fortissimo senso di non-appartenenza. Non goliardia e surrealismo per il semplice gusto del divertimento, insomma, ma piuttosto incredibili strumenti di rappresentazione di una realtà alternativa e parallela a quella in cui si svolgono le nostre esistenze: quella, molto più spaventosa di quella fisica, del subconscio. Paure nascoste, nevrosi, dubbi: tutto viene fuso senza pietà in un flusso di suoni deviato e imperscrutabile, ad altissimo valore metaforico: jazz, noise, punk, psichedelia, tutto diventa assolutamente irriconoscibile e irraggiungibile. Danze spezzate e caracollanti come "Navvy" o l'avvinazzata "Ubu Dance Party", ballate astratte e misteriose come la title-track, lo strumentale da incubo "Thriller!" (voci campionate, ritmo snervante, basso minaccioso, tastiere aliene) e la foga garage rock (sempre nel loro stile angolare) di "I Will Wait" dipingono lo stesso quadro con tinte diverse, sono tutte elementi fondamentali del cabaret dell'alienazione di Thomas. Il tastierista Allen Ravenstine si mette genialmente in mostra con i suoi tocchi fantasiosi e stralunati, i suoi borbottii, le sue melodie drogate, le sue "sparate" da concertista ubriaco, così come il precisissimo e non meno creativo bassista Tony Maimone, mentre Tom Herman alla chitarra dispensa riff pseudo-garage e schegge noise che complementano alla perfezione l'arte assurda del vocalismo di David Thomas.

Difficilmente si può parlare di accessibilità accostandosi ad un simile lavoro, ma il succo dell'esperienza Pere Ubu non sta nell'orecchiabilità delle canzoni (talvolta appena accennata, più spesso assolutamente assente) ma piuttosto nella sua qualità allegorica e psicologica: in un desolato paesaggio urbano post-industriale fatto di edifici in rovina, cieli color piombo e fabbriche abbandonate, un gruppo di teppisti psicotici e disperati vaga per le strade tutte uguali alla ricerca di un senso in un'esistenza priva di senso fin dall'inizio. Una ricerca che sembra sempre riportare al punto di partenza, un moto circolare e apatico che si arrotola su sé stesso. Musica non personale ma universale, non votata allo svago ma al coinvolgimento intellettuale e sottilmente emotivo. Lo definirei un capolavoro, ma è la stessa cosa che compare in tutte le recensioni di quest'album per cui... beh, penso che a questo punto non abbiate più dubbi. E non abbiate paura della tecnologia, Mr.David Thomas vi insegnerà come domarla.

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