I ragazzi del negozio di animali se ne stanno da anni alla vetrina, e osservano tutto, e tutto riportano, come lastre impressionabili, fedelmente, nei loro dischi, da sempre quintessenza del pop. Riportano il meglio ed il peggio, con disincantata ironia, senza schierarsi quasi mai (solo ultimamente l'hanno fatto: "I'm With Stupid", uscita in aprile, è una dichiarata presa per i fondelli della docile sottomissione, quasi amorosa, di Blair verso Bush), perciò accusati di una freddezza che, forse, è solo discrezione e buon senso.
In questo loro esordio (siamo nel 1986) incarnano l'essenza di quegli ambigui anni, per loro così tremendamente thatcheriani, oltre che edonistici, artefatti, patinati, e ne rendono superficie e profondità, con atteggiamenti che a tratti ne assecondano gli spensierati umori, a tratti li capovolgono, mimetizzandosi e sminuendosi volentieri.
Mettete su il disco: parte "Two divided by zero" e ci sentite dentro una grigia metropolitana, magari a King's Cross (come nel meraviglioso video che Derek Jerman girò l'anno successivo per l'omonimo pezzo), ci trovate dentro quei cementi, i manifesti pubblicitari, l'atmosfera ingessata fatta di ventiquattrore e vetrine, le luci di un inverno consumistico, le voci computerizzate del supermercato e delle stazioni, i rumori confusi e inafferrabili della grande città che ti sperde. Si tratta di un'esemplare quintessenza della disco-dance anni ottanta, con l'aggiunta del marchio Pet Shop Boys, che garantisce una capacità di penetrare nel vivo le cose pur rimanendone apparentemente a debita distanza. Basta ascoltare i pezzi meno noti di questo stravenduto disco: "Violence" è intensa pur nel suo frigido tessuto di base, estremamente spoglio, ma che la melodia scava, sebbene attraverso il tono sempre vigile e controllato di Neil Tennant. "Later tonight", solo voce e tastiere, è un breve intermezzo elegiaco, che nei pochi secondi centrali, quando il piano rimane nudo, riesce a sprigionare e a trasudare il dramma grigioazzurro di quegli anni (che è l'aids, sempre così strisciante nei dischi dei Pet Shop Boys, silenziosa subdola e ineliminabile paura).
Liquidare con poche e stizzite parole l'apparenza dell'album ingenua e commerciale (nel senso letterale del termine, perché lo shopping i Pet Shop Boys lo cantano) sarebbe impresa sin troppo facile. Varrebbe invece la pena mettersi in gioco, sfidare l'aria che qua e là odora di naiveté e conformismo, immergersi senza pregiudizi in questa colata di concetti e spirito (e musica) anni ottanta. Immergersi in "Opportunities (Let's Make Lots Of Money)", canzone che divenne l'inno di una generazione di manager nerd e proto-informatizzati, perché cantava la promozione di sé a esclusivi fini pecuniari, proponendo una furba sinergia tra look e cervello applicato alle tecnologie. Immergersi in "I Want A Lover" e "Tonight Is Forever", che cantano la ricerca notturna dell'amore per club e locali, tra giri in macchine di sconosciuti e appartamenti in zone mai viste della città, tra spensierati abbandoni che si macchiano di incoscienza e sensi di colpa. Immergersi in "Suburbia", in quel ritratto un po' preconfezionato di pericolose periferie cittadine. Se ne uscirebbe con la coscienza che la visione dei Pet Shop Boys è sempre obliqua, sfaccettata, mai pacifica.
Musicalmente Tennant e Lowe ci sono già tutti, qua e là ai loro livelli maggiori: capacità straordinaria di creare melodie orecchiabili, utilizzo attento e mai kitsch (e quindi mai scriteriato) dei mezzi elettronici, che pure Chris Lowe dimostra di saper gestire con grande maestria (basta ascoltare i primi trenta secondi di "Why Don't We Live Together", in cui i beats sembrano follemente intrecciarsi), impeccabile comprensione del momento musicale, per cui "West End Girls" coniuga la prima elettronica europea ai primi vagiti di rap americano. E infatti fu primo posto nel vecchio e nel nuovo continente. Arte pop, insomma, che a vent'anni di distanza merita un recupero, perché, se i capolavori stanno forse altrove, la musica onesta e intelligente sta senz'altro (anche) qui.
"Please" lasciava già presagire quello che sarebbe stato dei Pets: una carriera indiscutibile, correttissima, con pochissimi passi falsi, sempre elegante, mai banale. Bastava dare un'occhiata alla minimale e sommamente discreta copertina, e al nome del disco, scelto perché si potesse entrare in negozio e chiedere con tono garbato: "Can I have the new Pet Shop Boys album, Please?".
Appunto: precisione e cortesia.
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