Talvolta può succedere che un album venga concepito e prenda forma in reazione al precedente. Chi volesse un riscontro piuttosto evidente può confrontare "Behaviour" (1990) e "Very" (1993) dei Pet Shop Boys. Perché se ci provi con "facciamo un album capolavoro" e non funziona, puoi sempre riprovarci con "facciamo un mega dance album elettronico" e poi mi dici.
Attenzione: non è che "Behaviour" non funzionasse a livello organolettico. Ma quando sei, tutto sommato, ancora in fase di avviamento ("Very" è il quinto album in studio) devi anche contare i soldini ( = vendite). Poi, con il tempo, puoi anche far quel che ti pare, quando le fondamenta sono solide ed il conto in banca ben rimpinguato ed al sicuro.
Chi vi scrive è fan viscerale dei Pet Shop Boys (ma dai ?) ma non è questo il punto. Ci sono album che fluttuano: oggi ti piacciono, domani meno, tra dieci anni dimentichi di averli. Poi, magari, ci torni sopra. "Very" è un sempreverde. E, se il meditabondo e malinconico "Behaviour" ti spinge all'introspezione, il messaggio di "Very" è: alzati, vai, lotta per sopravvivere. La notte ed il giorno, la sobrietà e l'esuberanza.
"Volevamo dodici potenziali singoli", dichiarò Neil nel 2001. Sembrava una chimera, ma i Pets ci andarono vicini. "Very" è un pugno nello stomaco. Ha generato inni da stadio, fatto ballare vecchi e nuovi fans, rinvigorito il pubblico gay (non a caso, Neil, fece outing proprio in questo periodo sulla rivista "Attitude" ).
Andiamo con ordine. Alla produzione, Neil e Chris: dopo aver lavorato alacremente per altri artisti (Neil : "Produrre l'album di qualcun altro è più facile che produrre il proprio". Grazie, zio Neil) i Pets si ritennero pronti per il grande passo. Alla programmazione il fido Pete Gleadall, considerato ormai dall'unanimità dei fans il terzo Pet Shop Boy. Due le regole. La prima: tutti gli strumenti devono essere riprodotti dall'emulatore, anche e soprattutto le chitarre. La seconda, che più che una regola fu una caratteristica, contemplò che le due strofe, su ogni brano, fossero differenti.
L'album si apre con il primo singolo, "Can You Forgive Her ?", brano apripista nel dna. Musicalmente carico, Chris Lowe in pieno trip da “orchestra hit”, parla di un ragazzo gay che non ha il coraggio di lasciare la fidanzata la quale lo percula per come balla e per la musica che ascolta. "E' autobiografica ?", chiesero a Neil. "No, non ho mai fatto sesso in un parcheggio per bici". (“Remember when you were more easily led,
behind the cricket pavilion and the bicycle shed”). "I Wouldn't Normally Do This Kind Of Thing", terzo singolo, curiosamente editato al contrario: la sobria versione dell'album viene estesa in occasione della pubblicazione come cd single. Qui si parla di un signore serioso tutto d'un pezzo che improvvisamente scopre l'amore e si lascia andare. "Normalmente non faccio questo genere di cose". Eh già. Poi si sogna e si rallenta con "Liberation" (anche se il piedino non smette di fare tap tap), un altro eretico che scopre l'amore dopo aver riso degli innamorati nella sua presumibilmente precedente cupa esistenza. Musicalmente un gioiellino, uno dei momenti di punta del disco.
"A Different Point of View" è una piacevole evasione e, a detta di qualcuno, il punto più basso dell'album. Chris: "Mai piaciuta. Ho messo quell'orchestra hit nel ritornello solo per disturbare Neil". Non sono del tutto d'accordo. Soprattutto, si ascolti questo refine: "Just this once...just say yes...please...". Provare per credere. Poi, c'è una parentesi piuttosto triste, un lento, "Dreaming Of The Queen", la storia di un sogno, fatto da Neil, dove lui e Lady D fanno il conto delle vittime dell'AIDS : "There are no more lovers left alive....". Non a caso, l'intro, suggerisce Chris, ha un tono piuttosto regale.
Si torna a ballare con "Yesterday, When I Was Mad" (quinto singolo) per poi ricomporsi immediatamente con il brano migliore dell'album, "The Theatre", raffinata rappresentazione dei barboni fuori dai teatri. Poteva, doveva essere un singolo. Chris : "Mi immagino il video, soprattutto la scena dove io passo accanto ai barboni dando loro denaro, accompagnato da Neil che invece li ignora...". Viene citato Luciano Pavarotti e forse, questo brano, inserito in "Behaviour" al posto dell'inutile "So Hard", avrebbe reso quel lavoro immortale davvero. Perlomeno ai miei occhi. Musicalmente, per struttura e approccio, una perla.
"One And One Make Five" è un classico in chiave PSB, delicato e pompato al punto giusto (il compromesso è l'imprinting definitivo del duo) ed i ragazzi lo avrebbero voluto come primo singolo. Non ne ha le potenzialità e la Parlophone ebbe occhio clinico in merito. Il compianto Dainton, loro assistente personale fino a che il cancro non lo stroncasse nel 2004, entra nel refine con un "Here we go, here we go, here we go....".
"To Speak Is A Sin" è un lento che ha origini antiche, pre-data “It’s A Sin”, e racconta dell'imbarazzo e del muro di silenzio che spesso si frappone tra gli avventori dei locali gay londinesi. Musicalmente, siamo sempre su alti livelli. Il brano si fa apprezzare anche nella versione live, proposta in "Discovery". "Young Offender" è il momento più raffinato dell'intero album. I suoni computerizzati che, per volontà del duo, riproducono in tutto l’album echi ed effetti presenti nei videogiochi dell'epoca, qui si fanno più fitti. Il giro di accordi ideato da Lowe è coinvolgente, di livello, il testo scansa le solite tematiche raccontando di una partita a scacchi online tra un uomo maturo e, presumibilmente, un ragazzino.
Si chiude con un'overdose di spensieratezza. "One In A Million" ha una storia lunga. Nel 1986 ne era stata realizzata una demo in lingua italiana, ma l'idea naufragò (meno male, aggiungo io). La versione definitiva, questa, stava per essere offerta ai Take That perché ritenuta troppo poppy, troppo leggera. Ma poi....boom! Carina è carina, ma non preponderante nell'economia del disco.
Di "Go West" (secondo singolo) posso solo dire che normalmente skippo fino all'outro strumentale, ossia la parte migliore del brano. Ho detto tutto. Cover dei Village People che, per quanto mi riguarda, poteva evitare di vedere la luce. Fu Chris ad intestardirsi, quando nel 1992 il gruppo fu invitato a presenziare all'Hacienda per un concerto, proponendo una versione alternativa di "Violence" e, appunto, la cover di "Go West". Chris impiegò del bello e del buono a convincere Neil, che non ne voleva sapere. Tant'è che la prima versione, un demo del 1992, era stato pensato come potenziale b-side. Il brano, ma questo già lo saprete, spopolò. Vero e proprio inno per il popolo gay, da lustri fa gomito a gomito con “It’s A Sin” per il ruolo di marchio di fabbrica del duo.
Le sessioni di "Very" diedero vita anche ad una manciata di brani strumentali, incorporati nella limited edition denominata "Very Relentless" e ad un interessante infornata di b-sides: "Forever In Love", "Confidential" realizzata per Tina Turner, che la pubblicò nel 1996. E' un lento gradevole, ma si scoprì a posteriori che la Tinona si aspettava qualcosa sulla falsa riga di "It's A Sin". Povera. E ancora, "Hey Headmaster", "Shameless", "Too Many People", "Falling" (realizzata per Kylie Minogue, musicalmente derivante da un mancato remix di "Go West"), "If Love Were All", "Decadence", "Euroboy", "Some Speculation". Gravita intorno a "Very" anche il singolo (che andò dritto al numero uno nel 1994) "Absolutely Fabulous", realizzato per l'omonima trasmissione.
“Very” è il fratello minore e scanzonato di “Behaviour”. Si guardino le copertine: rose rosse su sfondo bianco e una composizione simil-lego arancione. I due, come accade tra consanguinei, si vogliono bene, si stimano e apprezzano. Ma, mentre il maggiore preferisce starsene sul divano con una tazza di te’ ed un paio di amici intimi, fidati, il secondogenito preferisce correre per le strade smanioso di venir fuori, di sbocciare per quel che è: una meravigliosa, piacevolissima, innocente evasione.
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