Alle volte è un menestrellare pallido e assorto quello di Pete Seeger, l’usignolo di Stalin, come amavano apostrofarlo i suoi detrattori. Piena di asperità la vita di un comunista a stelle e strisce, che non aveva pensato una volta di più a chiamarsi fuori dal partito statunitense dopo il ventesimo congresso dei comunisti russi, in cui il rapporto segreto di Khruscev rivelò le nefandezze del dittatore georgiano.
Insomma, non era una questione di tessera per Pete. La sua, paradossalmente, è stata una lotta combattuta con banjo, chitarra, armonica, flauto e parole che cantassero l’importanza di salvaguardare il creato in tutti i suoi aspetti. L’abbandono del radicalismo politico di sinistra, avvenuto quindi nel 1956, portò il compositore e cantore newyorkese - classe 1919 - a riscaldare i suoi trascorsi degli anni ’40 insieme a Woody Guthrie, figura storica del roots folk americano. Insieme avevano attraversato l’America quieta ma brulicante di vita delle campagne, degli stati meno noti, delle vite cadenzate dalle tradizionali abitudini di un popolo figlio di nessuno. Insieme avevano dato l’avvio all’esperimento di unificare la canzone nazionale e servirsi delle sue musiche per cantare la contrapposizione all’agire privo di scrupoli dei governi, per mostrare un volto degli Stati Uniti più ancestrale ma parimenti attivo e contemporaneo.
Fu così che Seeger si presentò agli anni ’60, scevro da estremismi retrò e proiettato verso un modo di pensare meno reattivo e più chiaro, tutto teso a far emergere problematiche che dovevano appartenere al dominio pubblico. Nel segno di una contrapposizione manifesta all’irrazionalismo rivoluzionario delle giovani folle, forse troppo a mollo in una grande bagno di massa lisergico.
Siamo a soli due anni dal 1968 quando Pete dà alle stampe (Columbia Records) questo purissimo album di cantautorato ecocompatibile ed eticamente corretto dal titolo God Bless The Grass. Fin dalla denominazione è chiaro un impegno demodé (ma comunque accattivante) rispetto ai contenuti trainanti e ai ritmi visionari delle musiche di grande impatto sui giovani di allora. Dentro c’è la dignità di un cantautore che, senza fronzoli alcuni, vuole presentare al pubblico problemi seri e visioni di una semplicità essenziale, senza appigli e rimandi potenziali agli effetti delle droghe. L’erba benedetta di cui parla Seeger è quella che c’è attorno alla porta di casa dei poveri, che cresce anche quando la concretezza si stanca di svolgere il proprio mestiere (ascoltate la titletrack).
Questo è un album di poesia con un uso elementare della lingua, scritto per regalare le figurazioni visive di grandi paesaggi e di ritratti su singole situazioni realmente accadute, in cui spesso sono intervenute pubbliche istituzioni (ad esempio, il comune di San Francisco), alle masse. Milioni di persone hanno avuto così a disposizione una spinta sensibile verso i temi dell’ecologia, e una prima consapevolezza su quanto di barbaro si facesse un po’ ovunque nei confronti dell’ambiente . “God Bless The Grass” è diario di viaggio su un trentennio di amenità ed immondizia, di fili d’erba lontani dall’uomo e di uomini lontani dall’idea di tutelare i territori, di acque limpide che hanno poi portato a galla il nero dell’umanità. La diffusione della conoscenza era l’impegno di cui Seeger all’epoca si faceva scrigno aperto.
Le molte tracce (tutte di breve durata) di cui si compone questa release, portano alla luce anche un amplissimo repertorio di sonorità di matrice popolare, omnicomprensivo per quel che riguarda la completezza del folk statunitense. Un panorama musicale davvero totalizzante e – questa volta sì – radicale, di cui sono protagonisti gli strumenti citati in apertura di scritto. Molte volte soli, poche volte in combinata per fraseggi lievissimi e delicati. Che accompagnano il tono allegro, epico, da bettola e fondamentalmente sincero e fermo, di una voce che per me è la quintessenza delle carezze sulle corde vocali di un cantautore. Uno alla volta, questi misurati canti propongono rimandi a generi diversi. Country, blues, rock n’ roll, ballata cowboy, stornello, filastrocca, canzone impegnata sono interpretati da Seeger senza mai alzare la voce, e senza esasperazioni o virtuosismi. Sembra che in “God Bless The Grass” ci sia il liquido amniotico per la conservazione della originalità delle musiche dei fifty states, cui hanno attinto successivamente un po’ tutti (da Dylan ai Cinderella e molto oltre), per irrobustire o disintegrare e riscrivere. Pregevolissima è la manifattura al banjo, strumento a cui il compositore ha dedicato un libro dal titolo How To Play The Five-String Banjo che, leggo, è stata fondamentale per la formazione di molti musicisti.
Io ringrazio Iddio per avermi fatto scovare tra le polveri degli scaffali del mi babbo questa opera maestra di chiarezza, impegno, solidarietà e grandi temi. Quelli di cui oggi i politici parlano tanto. Temi che però sono stati svolti già molti anni fa e di cui sembra proprio che non importi nulla a nessuno.
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