Pete Banks è una vecchia leva del progressive rock, un chitarrista di classe, fantasioso, dotato di tecnica raffinata ma soprattutto di grande gusto musicale, un artista che non ha mai goduto completamente quel riconoscimento che il suo talento merita.

Dopo la militanza nella formazione primordiale degli Yes e in quella dei compianti Flash, Pete sente l'esigenza di esprimersi solisticamente e nel 1973 realizza "Two Sides of Peter Banks", reclutando un team di musicisti illustri che include Jan Akkerman, John Wetton, Phil Collins, Steve Hackett e due membri dei Flash, Ray Bennett e Mike Hough. Vent'anni più tardi, nel 1993, pubblica "Instinct", e due anni dopo, questo "Self-contained" che ne ricalca in toto l'impostazione. Si tratta infatti, di un lavoro completamente strumentale, registrato in casa, e in cui Pete suona tutti gli strumenti in sovraincisione (a parte l'intervento del tastierista Gerald Goff in un brano), oltre a firmare tutte le composizioni. Un Pete Banks che stilisticamente vuole rinnovarsi e cambiare pagina, cosa che si intuisce già dalla gag presente nella prima traccia, dove in un frammento audio, lo sentiamo intento a ruotare la manopola di una radio alla ricerca di una stazione su cui sintonizzarsi, ad un certo punto ne trova una che trasmette un vecchio brano dei Flash (Small beginnings), la bypassa senza indugi sospirando: "Oh my God...". Adesso il suo stile chitarristico si ispira in buona misura a icone contemporanee quali: Pat Metheny, Adrian Belew e in particolare a Steve Vai.

Il rischio di scivolare nella noia con un album fondamentalmente 'guitar based' di oltre 75 minuti, è molto elevato, ma il nostro se la cava in modo egregio e a parte qualche momento di stanchezza l'ascolto scivola via piacevolmente, grazie al suo dirompente ed evocativo playing. Ventuno brani che si dipanano attraverso i più svariati stili: progressive, heavy rock, jazz, funky, techno pop (in stile Thomas Dolby), con ammiccamenti orientali ed ellenici. Gli intrecci multicolore della sua sei corde trasvolano su un background condotto dalle drum machine e inframezzato da clip sonori contenenti voci narranti e rumori vari. Tutte le tracks sono di buon livello, anche se l'episodio che preferisco è la conclusiva: "Thinking of You", una breve ballata elettrica suonata in solitudine, che da sola vale tutto il disco.

In definitiva un ottimo album di chitarra, anche se non si può parlare di capolavoro, fa piacere sentire il 'ruggito' di un vecchio leone (sessantuno anni all'anagrafe) che ha ancora molto da dire.

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