Peter Gabriel è uno dei più grandi geni ed innovatori della musica moderna. Vocalmente dotato di una voce unica ed inimitabile, capace di garantire interpretazioni sceniche e recitative pressochè inarrivabili, se non da pochi rarissimi eletti. Il suo percorso creativo lo portò ad affacciarsi curiosamente sulla World Music, sulla musica elettronica, sul rock di stampo "Springsteeniano" e persino sulla disco music, ma i suoi ultimi due dischi esplorano la musica classica e le capacità interpretative della prestigiosa orchestra d'accompagnamento, totalmente spogliata degli strumenti tipici del rock. Così come in "Scratch my back" esplorava canzoni altrui però, in "New Blood" rianima il sangue delle sue vecchie composizioni, anche con l'aiuto della figliola Melanie Gabriel, che per me non ha un giudizio del tutto positivo, ma lo spiegherò in seguito, nel dettaglio.
Il disco inizia con la maestosa ed estremamente cupa "The Rhytm Of The Heat", proveniente dall'immenso "IV", e qui ripresentata in veste meno claustrofobica. La prima cosa che si nota è un autentico miracolo: la voce di Peter con gli anni non fa che migliorare! qui assume decine di sfumature diverse, si incupisce e si chiude su sè stessa, si lancia in incredibili arrampicate e affoga nel nichilismo della follia danzante delle tribù africane. Nel complesso trovo però meglio resa la versione originale.
"Downside Up" è la prima canzone in cui a duettare con il paparino c'è la affascinante Melanie Gabriel, che dire? la sua voce semplicemente viene schiacciata da quella del padre, e su questo non ci piove, ma la cosa mi ha sorpreso in negativo: spesso si perde solo in inutili ghirigori vocali e gorgheggi reiterati, troppo lamentosa e mancante di espressione. Il pezzo è comunque estremamente godibile, e ben meglio reso dell'originale.
Segue l'immenso capolavoro Gabrielliano di tutti i tempi (in lotta con "The Family and The Fishing Net") la carezzevole, dolce ed estremamente decisa "San Jacinto". E' qui il regalo più bello che Peter ci fa, il riuscire a rendere un capolavoro immenso anche più grande. La nuova dimensione orchestrale dona al brano un'ariosità e una sensazione pressochè unica di estrema libertà, cosa che l'originale andava un po' trascurando in favore di una altrettanto incisiva base percussiva martellante e meno soffiata e delicata di questa, eppure straordinariamente inserita tra gli altri strumenti. La voce tocca la massima punta emotiva mai raggiunta da PG, specialmente nell'esplosione orchestrale dei 4 minuti. Non mi aspettavo che senza chitarra elettrica la forza sarebbe rimasta invariata, ma mi sono dovuto ricredere ascoltando l'immensità del cantato gabrieliano qui, poco da fare, quest'uomo ha reso la voce la sua puttana.
"Intruder" è il primo tentativo del disco di riportare a galla la cara vecchia sensazione di paura che PG sapeva ben trasmettere. Chi non ricorda l'originale? con quelle pelli della batteria strozzate, quel ritmo martellante e marziale, quell'assurdo cantato sussurato che riempiva di terrore strisciante e meschino. Bene, qui tutto ciò è stato tolto (mi sono sentito molto deluso per la mancanza del cantato soffiato, dopo quel che PG era stato capace di fare con la voce nel brano precedente mi aspettavo molto altro) in favore dell'aggiunta di una nuova dimensione strumentale al brano, che presenta una lunga coda orchestrale, abbastanza inquietante ma ben poco in armonia con il passato. Un nuovo brano questo, non considerabile una cover in quanto radicalmente diverso!
"Wallflower" mi hapersonalmente deluso, partendo all'originale si potevano fare grandissime cose come per San Jacinto, ma qui PG non aggiunge assolutamente nulla alla proposta iniziale, c'è solo un malinconico pianoforte e una alquanto dimenticabile prestazione diMelanie sul finale.
"In Your Eyes" procede con un tema brioso, senza eccellere,e poi segue il brano che mi ha più deluso dell'intero disco assieme a "Darkness", sto parlando di "Mercy Street", dove diavolo è finita la magia dell'originale? persino la voce sembra peggiorata! il finale ambient( secondo me una delle cose più emozionanti mai scritte da PG) poi si perde come nulla sotto la debole base orchestrale, e il risultato è un mezzo patatrac con la splendida voce di PG in primo piano, non abbastanza per giustificare alcun giudizio positivo.
"Red Rain" rialza di non poco il livello qualitativo, meravigliosa l'atmosfera nervosa praticamente invariata dall'originale, spettacolare sia la voce che la melodia nel ritornello, che ci fa davvero apparire come prima immagine nel cervello una maestosa immensa tempesta, dove un impavido PG naviga su una nave (quella che doveva essere di Mercy Street, per intenderci "Out with the father he's out in the boat, riding the water, riding the waves on the sea"c'è stata una trasfigurazione) affrontando con coraggio i suoi incubi peggiori. Nuovo apice vocale, indeed, e netto miglioramento dell'originale.
Seguono altri due brani che se non sono ributtanti ci sono vicini, su Don't Give Up ho davvero da dire solo parolacce (cos'è quel coso che miagola al posto della Bush? COSA CAZZAROLA E'?) ma per Darkness voglio spendere due parole. L'originale è uno dei miei brani preferiti in assoluto, con quelle esplosioni metalliche e quella dolcezza inquietante del piano nei momenti di pausa, nei momenti di vuoto cosmico che prelude ad una nuova incalmabile esplosione di furore, terrore e rabbia pura. bene, qui non c' è nulla. Dove prima la voce era semplicemente filtrata come attraverso un cellulare, qui è pesantemente modificata digitalmente, e il risultato è davvero goffamente tragicomico. Nessun senso di terrore incombente, nessun suono metallico sullo sfondo, nulla ci darebbe l'impressione che alla base della canzone c'è la follia. Io ci vedo solo mestiere, e questo non mi piace. Delusione immane!
"Digging In the Dirt" rialza nuovamente lo standard del disco, ottima prestazione vocale, belle le pause strumentali sul ritornello, cariche di tensione che si sprigiona nelle fasi successive. E qui Melanie diventa quasi piacevole all'orecchio, in quanto si limita a fare da pilastro per il papà, e devo dire che quella voce dolce ben accompagna quella ruvida e tagliente del padre.
Il momento più alto del dsico è però, secondo me, una assolutamente ignorabile canzone strumentale di 3 minuti, "The Nest That Sailed the Sky". Mai, e dico mai, PG è riuscito ad emozionarmi così tanto, e con così poco. La assoluta delicatezza, la totale espressione di libertà e apertura al mondo esteriore che questa traccia trasmette, rendono quelle brutture precedenti sopportabili, in quanto sai che ti aspetta un lungo viaggio nel cielo aperto e scintillante di un azzurro innaturale, nel tuo caldo cesto di vimini foderato con amore dalle mani femminili di una qualche parente, o magari da tua madre. Queste sono le immagini eteree che mi evoca la canzone, e non c'è modo migliore di concludere così un album.
Carico i commenti... con calma