Il giorno dopo l’uscita nei negozi del quarto album senza titolo di Peter Gabriel (1982, ‘Security’ negli States) un amico ed io evitammo la scuola per comprarlo, e ci chiudemmo a casa per ascoltarcelo in santa pace, pieni di aspettativa per quello che il meraviglioso predecessore di due anni prima lasciava intuire. Un attento esame della copertina ci indusse a fare penombra nella stanza per una questione d’atmosfera, e nel silenzio la puntina scese sul lontano crescendo di tamburi sintetizzati di ‘Rhythm Of The Heat’. Dopo i primi due brani eravamo letteralmente agghiacciati, e le temporanee pause di relativa normalità non servirono a lenire il pathos della terribile ‘Family And The Fishing Net’ o della drammatica ‘Lay Your Hands On Me’. Un ascolto scioccante, un album innovativo e coraggiosissimo, un motivo in più per accettare l’ormai lontana e compiuta defezione dell’Arcangelo Gabriele dal libro della Genesi. Troppo diverso, troppo alieno ed intellettuale, troppo lontano dal rock delle origini.
‘Peter Gabriel IV’ (com’è sempre stato chiamato il disco) è ancora oggi uno degli ascolti che hanno segnato la vita e la sensibilità artistica di tanti fra noi. La bellezza cristallina del terzo album, molto futuribile nel suono eppure in qualche modo ancora comprensibile e ‘rock’, sfocia qui in un saggio drammatico, coinvolgente ed avvincente sull’antropologia dell’uomo, sulle diversità e sulle culture presenti e scomparse, sulla world music e sull’inconscio collettivo e primevo, sulle paure dell’uomo e sull’Africa che c’è in ognuno di noi. Gabriel mette la sua ultima terribile maschera – una maschera africana – e non a caso chiama a partecipare l’amico Peter Hammill, il cui contributo al kick-start del pregevole progetto Womad era stato nel 1980 il terribile e misterioso brano ‘A Ritual Mask’, incubo africano di rara forza e dissonanza. (Lo stesso contributo inedito di PG, 'Across The River', prefigurava per chi aveva avuto l’attenzione di far caso al doppio vinile tematiche ed epicità proprie dell’album a venire).
L’apertura è delle più intense che sia dato immaginare, laddove un gorgheggio strozzato sopra l’ipnotico tappeto delle percussioni ci scaraventa nell’incubo primevo delle scioccanti esperienze di Carl Gustav Jung in Africa. L’oscuro africano, la forza della terra e quella della lancia che ferisce ed uccide, il retaggio ed il richiamo del sangue, il rifiuto della tecnologia e del mondo occidentale (‘smash the radio’) trovano un culmine terribile nel frastuono tribale dei Drums of Burundi, per spegnersi in un’eco piena di pathos ed accogliere le marimbe asimmetriche di ‘San Jacinto’. È un pattern circolare in tempi dispari, ripreso direttamente dal minimalismo di Steve Reich, quello che ci porta in un luogo immaginario di sepoltura dei pellerossa, intriso di analoga magia e di spiriti elementali: un luogo di forza e suggestione supreme, in cui dalla terra salgono le voci degli Indiani morti che parlano di un popolo fiero e coraggioso, della sua tenacia, del suo diritto a vivere e della sua unione con gli spiriti degli animali e della natura. Un brano struggente e liricissimo, forse la migliore interpretazione di sempre di Peter Gabriel (palesemente molto coinvolto a livello emozionale), che vede nella conclusione della prima parte (‘I hold the line…’) il punto più epico della sua testimonianza civile, culturale e politica. Anche in concerto il lungo brano si concluderà con le voci dei pellerossa morti, una terribile denuncia per una terribile pagina della storia dell'uomo, e migliaia e migliaia di spettatori nelle arene di tutto il mondo alzeranno nuovamente il pugno e le voci con Peter, come avevano gridato e continueranno a gridare per la sacra memoria di Steven Biko e dei martiri dell’apartheid.
Inutile dire che il resto dell’album si mantiene sulle coordinate aliene dei due pezzi iniziali. Chiarito il contesto in modo perentorio, l’autore si permette qualche ottimo interludio solo apparentemente meno impegnativo – ‘I Have The Touch’, la famosa ‘Shock The Monkey’, la conclusiva ‘Kiss Of Life’ (in 10/4!) – in mancanza di cui avremmo collassato ben prima di consumare l’album, ma la ricerca sonora resta ai livelli più alti con uso costante di steel drums, noise gate, dell’innovativo stick bass di Tony Levin, delle percussioni tribali di Jerry Marotta e soprattutto del Fairlight, che qui non viene certo usato come sui dischi di Ramazzotti (non mi dispiace per Ramazzotti). Il superbo campionatore Fairlight consente a David Lord e Larry Fast, ed allo stesso Gabriel, di utilizzare frammenti dei suoni ambientali più sinistri ed inconsueti (suoni dell'acua, del vento e delle rocce), e processarli per modificare il suono degli strumenti, in particolare (ma non solo) delle tastiere. Lo stranissimo pattern percussivo dell’inquietante e tribale ‘Lay Your Hands On Me’ (durante la cui esecuzione PG inizierà a farsi prendere e trasportare fisicamente dal pubblico) deriva, ad esempio, dal suono di un ciottolo che rotola.
Suoni e fischi e voci cavernose, e batteria al contrario, e stick bass e Fairlight come se piovesse compongono invece la terribile ‘The Family And The Fishing Net’, in cui l’apporto anche concettuale di Peter Hammill si fa notevole. È il brano più ‘pauroso’ ed oscuro mai realizzato da Peter Gabriel, storia e incubo sanguinoso di tremendi riti tribali di matrimonio e congiunzione di sangue e carne, un pezzo senza risoluzione e senza uscita dotato di una metrica irregolare e minacciosa. Un incubo anche dal vivo, che sull’album contrasta con l’unico brano veramente pieno di luce del disco: la bellissima e vibrante ‘Wallflower’, canzone di denuncia ma anche di speranza, storia e resoconto di tutti i torturati ed uccisi per motivi ideologici nel mondo con particolare riferimento ai desaparecidos sudamericani. Come sempre, Gabriel non si limita a cantare e piangere la loro sorte ma invita all’impegno civile e politico, la voce è ferma ed è fiera, il pugno è alzato ancora una volta, ed il nostro con il suo, ancora una volta. Peter venne in Italia nel tour che seguì all’album e mi persi anche io nella marea delle voci e delle mani alzate, uno dei live set più belli e coinvolgenti cui abbia mai avuto la fortuna di partecipare, anche perché in quegli anni il nostro aveva una voce senza pari ed una presenza scenica ed intensità espressiva davvero ineguagliate.
Al termine dell’estenuante serie di concerti, Peter pubblicherà un entusiasmante doppio live e si fermerà tre anni per ripensare il proprio percorso artistico, consapevole di non poter andare oltre in questa direzione. Coronamento e summa di tutte le intuizioni che lo avevano portato nel giro di sei anni da ‘Here Comes The Flood’ a ‘San Jacinto’, il quarto album di Gabriel resta l’opera più estrema ed incisiva mai registrata da questo artista ed una delle più personali e coraggiose mai realizzate. Un disco da portarsi sull'isola deserta, da regalare ai propri figli perché sappiano e non vengano sommersi dal ciarpame musicale e culturale, un album che prende allo stomaco e brilla di una luce inestinguibile nonostante i trentadue anni di distanza dalla sua uscita.
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