Partiamo dal presupposto che Peter Green è (o almeno, è stato per buona parte della sua vita artistica) un genio. Proseguiamo dicendo che fu il sostituto di Eric Clapton (mica uno qualunque), prima provvisorio e poi stabile, nei John Mayall & The Bluesbreakers e infine il fondatore di una delle band cult del blues degli anni ’60 / ’70 : i Fleetwood Mac.

Chitarrista versatile e fuori dagli schemi, così tanto da diventare asceta dopo la pubblicazione del disco da solista avvenuta nel 1970, “The End Of The Games”, registrato con una superband composta da Zoot Money al piano, Nick Buck alle tastiere, Alex Dmochowski al basso e Godfrey Maclean alla batteria. La prima cosa che balza all’orecchio nell’ascolto del disco è la capacità di creare un’atmosfera surreale, allucinata e sognante che rimanda l’ascoltatore ai trip di cui si rendeva protagonista Green ‘grazie’ al massiccio uso di LSD, consumato in quegli anni (ciò lo portò anche al ricovero in una clinica psichiatrica nel ’77).

Apre l’LP “Bottoms Up”, una cavalcata che parte in sordina con la chitarra che ricama note sul giro di basso, e che pian piano va a salire d’intensità con un crescendo di batteria, basso (protagonista come non mai) e con la stessa chitarra, piena di distorsione e wha: è il primo capolavoro del disco. Il secondo lo troviamo alla terza traccia, dopo un breve pezzo molto psichedelico come “Timeless Time”: “Descending Scale” comincia subito in quarta con piano e tastiera qui protagonisti di un inizio aggressivo che culmina con l’entrata di Peter Green con la sua Les Paul in un vortice sonoro noise allucinato. Come sempre, e costanti in tutto il disco, basso e batteria gestiscono l’andamento del pezzo  con l’alternanza di piano e forte. Nei restanti pezzi la fanno da padrone MacLean in ‘Burnt Foot’, dov’è autore di un pregevole solo di batteria in cui è protagonista la cassa, e la psichedelia degli ultimi brani. L’ultimo pezzo, la traccia che da il nome all’LP, è un altro capolavoro, che fa terminare fantasticamente l’opera: cinque minuti di dialoghi tra chitarra basso e batteria, quest’ultima molto indugiante sui piatti, e la chitarra ricca di delay riverbero pronta a rispondere ai richiami del basso.

In conclusione, sicuramente uno degli episodi di musica psichedelica più riusciti degli anni ’70, che merita di essere conosciuto dagli amanti del genere, ideale da ascoltare ad occhi chiusi nel buio per evocare paesaggi lontani.

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