"Tutti a Roma parlano della morte."
Ed eccoci qui. Finalmente viene svelato l' arcano del mio nome, Caspasian! Tengo conto che "nun ve po' frega' de meno" ma chi è detentore di questo nome è uno dei protagonisti del film, un ruolo coperto da una caratterizzazione da vero "pezzo di merda", acuto, tagliente, intelligente ma... serpente, opportunista, calcolatore, arrogante, pugnalatore alle spalle senza ritegno. Caspasian: una faccia da cazzo in doppio petto.
Insomma un bel personaggino con la sonorità di un nome che mi ha subito attratto proiettandomi nelle sacre zone montagnose dell' Ararat e che, essendo la mia essenza agli antipodi da quella del soggetto in questione (anche se questa mia ultima reincarnazione si è manifestata in Roma), è stata mistificatoriamente subito adottata da uno come me, appassionato di tappeti orientali antichi, specialmente caucasici, che di tanto in tanto piazza una vendita di qualche shirwan, buchara, heritz centenario scovato in qualche bazar di Praga e che ama fare aleggiare nella sua testa arie tipo: "Atelier Caspasian - Tappeti Arcaici e, alla bisogna, volanti..."
Ma bando a delirî vanitosi, immergiamoci in un esercizio impervio come l' affrontare un prodotto di Peter Greenaway, tanto più se si tratta de "The belly of an architect" dove il birichino regista gallese nel 1987 sublima ancora di più le prove precedenti consegnandoci una visione delle cose vicine allo zero assoluto. Tagliente come un coltello da macellaio il caro Peter procede per tutto il film imbastendo situazioni occulte e riesce nell' intento di filmare le sensazioni e gli umori rinunciando tante volte all' immagine canonica che trasforma in un immagine interiore. Vivaddìo! Vita, consunzioni e morti sono portate a noi in maniera che definirei subliminale. Un massacro di secolari intrecci per una deflagrazione psichica che accelera tutti i "cancri" in ballo.
E sullo sfondo che abbiamo? Una caput mundi offertaci non meretriciamente come una pseudo "grande bellezza" ma colta nel suo vestito originale fatto di ferocia impersonale. Roma è così, non chiama e non aspetta nessuno, fagocita tutto, cloaca di coscienze che riflette l' invisibile di te stesso che non vuoi accettare. Spietata a rivelare le tue miserie come spietato è il regista a non concedere nessun appiglio comune cinematografico: la storia è lo sfondo e Roma è la protagonista, sempre ed eternamente, con quei drappi, in mezzo alle colonne del Vittoriano, che capricciosamente svelano e nascondono le "rovine", mossi dal vento osceno dei millenni.
Greenaway scarnifica la ferina equanimità di Roma come Roma scarnifica tutti indistintamente. L' uomo di Newport esorta a spingerci ad un allenamento esoterico per poter arrivare a cogliere le nuance, le sottili variazioni, le impercettibili vibrazioni che determinano il quadro perfetto de "lo stato delle cose", quel "tutto accade" dove non ci accorgiamo che siamo stati carne da macello per altre entità. Quel macello di Chicago raccontato a tavola dai commensali, a quelle cene e quei pranzi proposti oltre il biblico, che è poca cosa rispetto allo scannatoio dell' Urbe: nel macello romano è da secoli che non si lavora più la carne vera e propria, ormai il sangue è diventato uno spettro.
Stourley Kracklite, nato a Chicago, Illinois, fa parte dell' emisfero occidentale "di cui Roma non fa parte..." Greenaway non filma Roma, è Roma. Il suo annullarsi e concedersi alla città incondizionatamente apre le porte alla rivelazione silente: Roma ti distrugge dimostrandoti che non si può vivere con la vita, e Greenaway è allenato bene a questa verità. Le immagini che tira fuori il regista lusingano l' Entità che permette di fare scoprire alcune sue ombre. E rispetto al rivelare i segreti del corpo attraverso putrefazioni, mutilazioni, aperture su organi interni e scandagli vari dei precedenti e successivi film, mai come su questo Greenaway trova la strada (l' unica da percorrere) della trascendenza: l' ombra della morte è più pericolosa della morte stessa e sta di casa nei pressi del Tevere.
La deviata presa di coscienza dell' architetto viene filtrata dalla sua consapevolezza di infliggersi una sofferenza cosciente che attraverso il dolore fa sì che possa riuscire a vedere sprazzi di invisibile: "Dorme bene architetto? No da quando sono arrivato a Roma..." Ed è qui che l' incomunicabilità prende una via di non ritorno, è inevitabile... Se riesci a percepire un po' di invisibile che ci circonda e gli altri no, la frattura è conseguenziale ma chi fa il salto poi deve avere a che fare con altri tipi di fratture, interiori, definitive. L' estromissione dalla mostra, e di fatto dalla vita, è un esser tolto dal conformismo dove tutti sguazzano, aldilà la solitudine ti accarezza e ti accompagna nel non ritorno. Il dramma vissuto dall' architetto giunge così a noi asettico.
L' immobilità della cinepresa annulla finalmente l' inganno cinematografico del movimento, si filmano gli umori dei corpi che hanno in agenda un appuntamento col nulla. Cosicchè la soluzione finale di Kracklite ci appare plausibile come unica via di fuga dal cul-de-sac imbastito dai disegni divini. Un sacrificio cosciente, una dimostrazione di distacco dal veicolo biologico dove le sue voglie vengono depistate e deviate verso il patologico. Ecco la parola magica: essere nel patologico per essere "capolavori", non importa se la strada che porta a questo è cruenta e autodistruttiva. Roma è capolavoro perchè per sempre patologica.
Ma in fondo siamo fatti di carne umana e la carne va frollata il più possibile per poter affrontare le onde dell' inconscio, per cercare il punto di non ritorno. Usiamoci nei limiti delle leggi divine e arrendiamoci, come Kracklite ci suggerisce cólla sua concitata accettazione della distruzione. Facciamo della vita la palestra per disintegrare il fuorviante ego attraverso la rinuncia al tangibile, droghiamo l' anima con una rincorsa al fallimento, facciamo nostra la presa in giro che ci travolge scegliendo deliberatamente la burla continua verso noi stessi, abbandoniamo pose e schiaffeggiamoci senza sosta per sradicare i pensieri indotti e atterrare nel non pensiero, accettando tutto il fiele che ne deriva che, se privato di considerazione, altri non è che miele. L' architetto non può fare altro che comunicare con Étienne-Louis Boullée (1729-1799) con un epistolario trasversale che annulla lo spazio-tempo ma che risulta coerente sotto la forma della cartolina imbucata, visto che la distanza con le controparti terrene è divenuta ormai incolmabile.
La preservazione della vita-consumo-morte da parte del sistema assesta il colpo finale: mors tua, vita mea. Il ventre come simulacro di vita, come ricettacolo di bruciori e marciumi vari, come eco ad una cucina romana fatta di frattaglie, come otre che nasconde gastriti, coliche, ulcere, colesteroli, e come trasformatore di energia vitale in sangue. Il tempio dell' uomo, il ventre, si erge protagonista, e tutto parte dalle "panze" di tutti dove la digestione delle miserie umane determina un rumore che accentua l' inganno a cui ci sottoponiamo. L' ombelico diventa il centro per puntare un compasso che traccia un "grande raccordo anulare" di eterni ritorni.
Per sottrarsi all' effimero il prezzo è inevitabilmente alto ed è inversamente proporzionale alle tentazioni che portano alla perdizione, specialmente se il campo di gioco è la Capitale. "Vedi Napoli e poi muori", almeno la città partenopea lascia un contentino prima della fine, Roma no, impassibile si fa vedere solo se si è già trapassati. La musica di Wim Mertens calza a pennello e lusinga l' immobilità del travertino scandagliando, con l' intervento di Glenn Branca, l' insondabile, le ombre degli Imperatori passeggiano con noi.
E mi viene in mente la barzelletta di quell' americano che viene a Roma e ogni monumento che vede chiede al cicerone romano quanto tempo ci è voluto per costruirlo sempre ribattendo poi che in America ci avrebbero messo "mooolto meno tempo". Ma all' arrivo davanti al Colosseo la nostra scafata guida alla solita domanda di sfida risponde: "Questo? Non lo so, ieri non c' era..." E Caspasian ad una domanda sul cosa pensa la moglie dell' architetto risponde: "Niente, lei non pensa. Poverina, è americana." Kracklite anche inconsapevolmente, da buon pioniere, accetta e lancia la sfida alla città Eterna ma il boomerang mefitico della Capitale non lascia mai scampo: le prime volte che cerchi di mettere la testa fuori dalla "caverna" viene inesorabilmente tagliata.
L' eventuale marziano sceso sulla Terra sarà accolto dovunque con stupore e curiosità ma al tempo di presentarsi a Roma verrà "seccato" dal primo romano che passa con un: "A marziano... facce ride'..." La famiglia Speckler incarna l' infinita decadenza dell' Urbe, Flavia risulta essere la figura più antica, sospettata financo di ermafrodismo: "Tua sorella mi preoccupa, è addirittura più rapace di te", fa notare Louise a Caspasian. Roma prima ti inebria per poi assestare la sua mazzata definitiva con una sorta di partenogenesi tra Louise e l' energia del luogo, con la richiesta di vita fresca dalla partoriente al Vittoriano nel mentre dell' inaugurazione della mostra, all' unisono col sacrificio rituale dell' ormai tenero ex marito che con il "tuffo" all' indietro, eseguito appena sentito il vagito del suo primogenito, accetta la sconfitta.
Lo aveva capito quando subisce la condanna del rilascio da parte della polizia: "È tutto, vada pure". Il beneplacito al suicidio è suggellato: sempre meglio finirla per mano di un' entità millenaria invece che arrendersi ad una malattia psicosomatica del momento. E le maschere della tradizione del teatro antico diventano infinite fotocopie di addomi di illustri personaggi disseminate a mo' di pavimentazione nell' atto di "asfaltare" l' inganno della vita. E così i rituali richiesti da "la règle di jeu" sono espletati, l' orgia di sangue, sperma e redenzione è consumata.
Sull' altra sponda il "nemico" Caspasian ha campo libero perchè nato e vissuto nell' eterno della polis latina e sa come e quando appoggiarsi ai capricci della città lisciandole il pelo con svogliate libagioni: è lui il vincitore assoluto sul campo materiale. Ma sul fronte dei sospesi della legge di causa-effetto la situazione non è propriamente limpida. Non possiamo biasimarlo, nascere e vivere a Roma implica effetti collaterali imprevedibili e in molti casi devastanti.
E voi come state messi? Vi accontentate del vostro orticello indotto dall' esterno? Vi fate sempre i "cazzi vostri"? Giudicate seduti dal vostro divano? Continuate a nutrirvi di plastica hollywoodiana? Volete non avere problemi? Se è così auguri a tutti, quanto prima, per un buon microchip sottocutaneo scacciapensieri (?). Prosit!.
Quelle tre teste adagiate sul tavolino di cristallo nella casa-studio fotografico di Flavia, sorella di Caspasian, sono lo spirito di Roma. La stanzetta adiacente dove sono appese le foto fatte ai protagonisti, a loro insaputa, è il mattatoio finale, qui sono le vere "vacanze romane": Boullée, Newton, Augusto, Adriano, Andrea Doria, Pantheon, EUR, Foro, la piramide di fichi, la "macchina da scrivere", Caracalla's terme, Ostia, le campane, il "cuppolone", cappelle, veleno, rovine, catacombe, coratella, saltimbocca, pajata, Roma, Roma, Roma, Roma, Roma, Roma, ROMA, A NOI!
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