Terza (ed ultima, lo prometto) analisi di un'altra fase della carriera quarantennale di Peter Hammill, iniziata con il debutto "anomalo" di Fool's Mate (trattasi di canzoni mai usate per i Van Der Graaf Generator) e giunta, per ora, al qui presente Thin Air (2009). Similarmente a quanto fatto dall'altro genio del prog inglese, Robert Fripp con il suo "A Scarcity Of Miracles", sembra che finalmente, dopo decine di opere, alti e bassi, momenti irrequieti e cupe riflessioni interiori, Hammill abbia trovato la sua pace dei sensi: un angolo della propria creatività sempre ombroso e riflessivo, ma altresì rilassato e catartico.

A partire dalle tonalità raffinate della cover, la musica è un connubio quieto di tastiere, pianoforte, vaghe sonorità elettriche che avvolgono le composizioni, e non osano mai alzarsi sopra il delicato equilibrio generale: quest'ultimo aspetto risulta sia pregio che difetto dell'opera. Le composizioni non sono pienamente caratterizzate, risultando abbastanza simili tra loro quasi fossero una suite divisa in più movimenti, con un risultato coerente nel globale ma privo di picchi emotivi. Il tutto è ben "lucidato" da una produzione cristallina ed un'esecuzione elegante. Canzoni lente, giocate nuovamente sull'estro di Hammill, questa volta però meno irrequieto e teatrale di quanto aveva abituato il pubblico. Il tutto lontano da qualsivoglia pulsione rock, se non in qualche momento ("Wrong Way Round") che rimane un vagito sporadico ma poco "rumoroso".

E' lecito attendersi un po' di amaro in bocca se, avendo tra le mani Thin Air, la mente ricorda ancora la poesia anarchica degli esordi, ma l'epoca è del tutto diversa, ed un'opera così piacevolmente limpida riesce dignitosamente a mantenere a galla un nome ormai innegabilmente "vecchio".

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