La Nuova Zelanda è da sempre fucina di opere molto particolari. Sembra quasi che gli artisti di questo luogo remoto abbiano una capacità visionaria peculiare. Sarà forse per i profumi e le atmosfere di questo posto ancora poco contaminato, pregno di uno spirito ancestrale, sta di fatto che la loro musica emana queste sensazioni.
Peter Jefferies è un neozelandese d.o.c. Dopo aver dato vita assieme al fratello Graeme più di vent'anni fa ai "This Kind Of Punishment" preferì proseguire la sua strada come solista. L'album in questione è relativamante recente (1998), e rappresenta forse la vetta della sua carriera. Jefferies si chiude in isolamento, e compone un devastante quadro della solitudine, suonando tutti gli strumenti da solo.
Provate ad immaginare dei ritmi ipnotici di batteria alla Neu!, frasi minimaliste di piano e riverberi di musica ambientale per chitarre, miscelati da un gusto vagamante psichedelico e da una sensibilità musicale quasi trascendente, delirante, con un umore a volte apocalittico: "Substatic" è tutto questo.
Tutto il lavoro è permeato da una vena di profondo pessimismo, pare quasi voler rappresentare una metafora del dolore e del caos. La registrazione in low-fi (secondo tradizione neozelandese) contribuisce a rendere il paesaggio ancora più criptico. E' come essere al cospetto dell'esatto contrario della musica cosmica. Dove lì il senso della musica era "ascensionale", qui è sotterraneo, disturbato e indecifrabile. Questa rappresentazione del profondo culmina nell'ultimo dei 5 brani, "Three Movements", una suite di 16 minuti che racchiude tutta la filosofia di Jefferies. Un viaggio oscuro nella condizione umana, meritevole di stare accanto ai grandi capolavori del rock.
Album ostico e difficilmente catalogabile, ha il merito indiscutibile di fare onore all'arte, non essendo legato dal meschino spirito commerciale.
Se oggi è passato sotto silenzio, domani chissà, qualcuno magari lo farà santo.
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