Il flauto pànico di Gheorghe Zamfir edulcora e ipnotizza, incorniciando la terra ancora selvaggia. Peter Weir è nella sua Australia, e in uno dei suoi primi film la fotografa fedelmente, con fasci di luce accessissima e insieme fredda.
Picnic a Hanging Rock sembra nascere da un sogno protratto, da umori ancestrali sottoforma di nube gassosa e impalpabile, che avvolge tutto dolcemente e dolcemente lo soffoca.
La fascinazione da sempre esercitata dal film, girato nel 1975, nasce però dall'incontro tra le foreste dell'entroterra Oceanico, il mistero, e il biancore virgineo-istituzionale dell'elemento umano: un gruppo di adolescenti, presumibilmente di buona famiglia e di provenienza inglese: colonizzatrici di un ipotetico futuro in una landa non colonizzabile, nella quale ogni pietra, ogni sentiero, per quanto definito, corrisponde uno scarto sensoriale, un'apertura verso l'ignoto.
Le ragazze e la loro istitutrice si inoltrano in un viaggio dalle sembianze di una breve gita ma alcune di loro, la più goffa, la più bella, la più avventurosa, si allontanano senza fare più ritorno.
Il legame tra alcune delle compagne, apparentemente fissato nella consuetudine borghese, è fatto di pause estatiche, dialoghi e sfioramenti delicati, con la camera fissa ad inquadrare una chioma, a seguire lineamenti e a intarsiarli nel campo visivo. Nel discorrere delle protagoniste e nei rari ma intensi momenti d'apertura alla commedia il film è permeato da un languido estetismo, che racchiude nella sua estenuata ed evanescente raffinatezza tutto il suono di una natura "altra". Il suono espresso dagli stridii di una splendida e astringente prigionia.
Questa fiaba del primo '900 sembra preannunciare nella sceneggiatura "non originale" e nello stile di ripresa un'altra fiaba sfumata e crudele: quella delle sorelle Lisbon, eroine Settantine del debutto di Sofia Coppola Il giardino delle vergini suicide. Ma se la giovinezza di Peter Weir, così diversa da quella maschile immortalata nel lirico L'attimo fuggente (il titolo originale tradiva però un'inquietudine vagamente funerea esplosa nello scioglimento, con il riferimento ad una Dead poets' society), sembra illuderci nel suo schiudersi momentaneo ad una festosità arcaica ed intatta, diverso è l'approccio della Coppola. La regista sembra rubare la sgranatura lattea e i crinali dorati a Weir, ma il titolo è già programmatico di quel che accadrà a Lux e alle sue sorelle segnate dalla malattia dei corpi, dello spirito piagato dal bigottismo contestuale e da una sottile e schiacciante schiavitù della morale. Le carni scavate da una sorta di cancro preventivo, gli sguardi traboccanti una sensualità creativa e degenerante proprio perché impossibilitata ad esprimersi, se non nella morte.
Anche le collegiali di Weir, apparentemente gioiose e innocenti, celano un'inquietudine più puerile e implicita, un desiderio frustrato di abbracciare la natura e l'irrazionale. Come le Lisbon, evocative anche nel nome, giocano con la propria immagine e le proprie aspettative in clausura, stringendo tra loro un legame esclusivo, morboso, che alcuni hanno forse esasperatamente avvicinato ad una sorta di "lesbismo" - omoerotismo estemporaneo: si veda il saggio di Vincenzo Patanè in riferimento all'amore platonicamente intenso di Sara per Miranda, creatura iconica, e l'ambientazione temporale vagamente epifania della gita: il giorno di San Valentino del 1900.
Ciò che emerge è però l'assoluta abilità velare tutto questo, a rimandare la certezza dell'inabissamento emotivo legato alla trama alludendovi con piccoli passi impalpabili, estetici ma anche sottilmente psicologici.
Nell'ultima parte, introdotta da un incantesimo flautato calato a picco nei crepacci, con le riprese angolari e le vertigini della soggettiva di un rapace. Lo stesso uccello enorme, selvaggio, che accarezza gli occhi e la curiosità di una delle ragazze. Tre o quattro di loro durante un picnic salgono infatti su di una "roccia" pendente dalla forma peculiare. E' come se inspiegabilmente il mistero legato all'esplorazione e alla sparizione delle studentesse fornisse ad un'altra il pretesto per entrare nell'"orrorroso". Una fanciulla grassottella fatica a salire, e forse neppure lo vuole: la leggiadria che vorrebbe per sé e in sé in parte le fa paura, anima in lei il sospetto. Gli occhi degli spettatori dietetici e non, accecati dalla roccia catarifrangente, ricercano il luogo inenarrabile dove le ragazze sono scomparse. La porta per il giardino segreto che sembra non esserci, la mucosa asciutta nel corpo apparentemente ospitale di luoghi incontaminati.
E' in questo modo che avviene il secondo incontro: quello strutturale tra il "bello" e l'horror più puro, il terrificante sotto forma di irrazionalità assoluta. Una trascinante forza fiabesca illustra la tragedia con i suoi orchi invisibili, senza mostrarci cadaveri, putrefazioni di carni o di scrittura. Il testo rimane nitido come la visione, immacolata e assolata. Nessuna macchia di sangue, neppure nella ricostruzione dell'evento effettuata da chi è rimasto nell'"al di qua". L'epifania è compiuta, in una celebrazione della naturalezza selvaggia contrapposta alla quotidianità borghese, sempre viva ma sempre inesorabilmente mortuaria.
La gradevolezza neo-rinascimentale di quei volti e di quelle menti durante il loro processo di formazione è smentita dal regista, qui "esorcista" della stagione adolescenziale, della sua disillusione, della sua intrinseca e intangibile violenza. La materializzazione-morte non è solo sublimazione, ma unica espressione possibile di una commistione fuggevole tra natura e metafisica, paradisiaco e demoniaco.
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