La prendo larga, parto dall'Italia. Perchè francamente non riesco a comprendere come vengono "distribuite" le pellicole nel nostro paese. Passi l'idea della “pubblicità”, passi l'immagine imperante del “family movie”, passi tutto quello che vi pare, ma spesso, soprattutto negli ultimi anni, film ed autori notevoli hanno finito con l'essere quasi del tutto emarginati. Prima di Weir un altro caso non lontano nel tempo è stato quello di John Hillcoat, con “The Road”, tratto dall'omonimo romanzo di Cormac McCarthy e considerato un lungometraggio poco adatto al grande pubblico per il suo tono dimesso e “triste”.

Scelte poco condivisibili che hanno contribuito a rendere del tutto introvabile nelle sale italiane “The Way Back”, ultima fatica cinematografica di un cineasta dall'indiscusso talento. L'australiano Peter Weir non solo ha firmato lavori che si sono ritagliati uno spazio di diritto nella storia del cinema (si pensi in particolare a “Picnic ad Hanging Rock”), ma ha anche sviluppato un modo del tutto personale di svolgere il suo mestiere, ponendo al centro delle tematiche che tornano ricorrenti. Basti pensare al poetico e perturbante intreccio tra la natura e l'uomo. Un modello interpretativo di Weir che è presente in diverse sue pellicole. Il nucleo di “The Way Back” è proprio questo dualismo uomo/natura che torna di nuovo come stilema del cinema firmato Weir. Partendo dalla fuga di alcuni prigionieri nei gulag della Siberia staliniana, Weir descrive un interminabile viaggio verso la libertà, la vita intesa nel senso più “viscerale” del termine.

Dalla condizione di privazione assoluta del gulag, alla libertà “imprigionante” del deserto del Gobi. Da un estremo all'altro, in un trionfo di immagini e location tra le più entusiasmanti mai viste al cinema. Weir da vita ad una pellicola dove trionfa una Natura maestosa, selvaggia, scarna, dura, “matrigna”. “The Way Back” è innanzitutto un film che lascia parlare le immagini, in cui c'è largo spazio ai silenzi. In verità i rari dialoghi non brillano troppo, causa una sceneggiatura (firmata dallo stesso Weir) eccessivamente tendente ad emulare quella natura che fa da sfondo alla vicenda: quindi un plot fin troppo scarno, privo di una reale capacità di penetrare oltre la semplice caratterizzazione esterna dei personaggi. Insieme alla lentezza dell'opera probabilmente il difetto più marcato.

Questa lunga epopea ha i volti di attori importanti, quali Ed Harris, Colin Farrell, Mark Strong e di leve più giovani come Jim Sturgess e di Saoirse Ronan, unica figura femminile della vicenda. Un cast di rilievo che riesce a svolgere in maniera precisa il proprio compito, anche se la ristrettezza del plot lascia spesso gli attori nella condizione di dover essere soltanto dei puntini sull'orizzonte, tanto nelle lande ghiacciate della Siberia quanto nell'infernale deserto mongolo.

Il sottobosco del lungometraggio, quel sistema del gulag che si intravede nella sua durezza nei primi minuti del film, per fortuna rimane sullo sfondo: Weir ha saputo evitare la trappola dell'analisi politica di quel preciso momento storico, che avrebbe trasformato “The Way Back” in un'opera dal retrogusto storico scontato, andando ad intaccare anche la storia nella sua totalità.

A sette anni di distanza da “Master & Commander”, (“The Way Back” è di fine 2010), Peter Weir è tornato portando sul grande schermo la solita grande opera di classe e maestria di un autore “classico”, uno degli ultimi grandi del cinema contemporaneo. Un lavoro dilatato, ostico, di certo non esente da difetti, ma allo stesso tempo grandioso e riuscito nella sua semplicità, nella sua sacralità.

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