In fondo, quello che Brian Eno e Jon Hassell cercavano, nelle loro audaci escursioni panatlantiche, era solo una cosa: la bellezza. La meraviglia di solcare l'Oceano Atlantico e poi il Mar Rosso, imbattersi nel verde brulicante della foresta pluviale e perdersi fra le dune e la polvere del Sahara, con il sole accecante che modella ogni cosa che ti sta intorno. Non erano i soli. In quel Quarto Mondo si era fermato anche qualche amico, Froese, i Talking Heads, e poi Peter Gabriel, Jah Wobble e chissà quanti altri. Visionari che volevano cambiare il corso delle cose e costruire un nuovo mondo, ipertecnologico e antichissimo insieme. Tre erano forse troppo pochi.
I Faraoni sono figli (più o meno) legittimi nati nel corso di queste esplorazioni, e "In Oeland" è la loro visione più nitida finora. Se leggete i crediti, scoprirete che Sam Cooper, Alejandro Cojen, Casey Butler, Diego Herrera e Andres Renteria provengono da L.A., California. Non fidatevi. In realtà sono appoggiati sopra un'isola vagante a centinaia di miglia nell'ipersfera, sospesi tra passato e futuro, nel bel mezzo del niente. Ci sono 7 tracce in questo disco, che è una specie di via di mezzo tra un ep e un album: è musica che non va da nessuna parte, non perché non abbia nulla da dire, ma perché non ha una meta precisa, e la sua ragione d'esistere è il viaggio.
L'apertura di Muddy Middle of Nowhere è una squarciante epifania che lacera la tela della nostra quotidianità: un lampo abbacinante e viene svelata la danza tribale di Fela Kuti e Tangerine Dream sulle dune del Sahara, raggiunti da un sax che richiama Bowie - e a occhio ci sono tutti - ovviamente periodo Berlino. Lo stesso sax che si appoggia sulle chitarre messicane di Invisible Mile, dove gli strumenti si inseguono e giocano sotto il sole che da San Diego passa la frontiera e si accomoda placido dentro al primo bar trovato in strada, e poi giù fino al golfo della California del Sud, dove a Cadeje ci si può sedere e sentire la marea e le onde che salgono piano, con la chitarra che disegna paesaggi immaginari e immensi. Poi c'è l'omaggio Talking Heads di Oelan Gunda, tante chitarre finissime e synth leggeri, c'è il volo australiano di Air Kiribati e la tropical disco subacquea in cassa 4 di Coral Heads, fino al finale zoppicante di Energy. Qui il vecchio sax saluta tutti e trova un po' di riposo. O forse no.
Dicono che i Faraoni vengano dall'Egitto...ma io non credo che abbiano una casa. La loro musica estatica, in cui convergono ambient, funk, disco e krautrock, viaggia e non si ferma mai. Suonano una sinfonia nuova e antichissima insieme, e forse "In Oeland" fa parte di quella ristretta cerchia di album - ma questo lo scopriremo solo tra qualche anno - capaci di fondere terra e paradiso dentro pochi solchi.
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