Sin dall’inizio t’avvolge morbidamente: un vagabondare astrale che vorresti non finisse mai.
A twelve-bar 21st Century Cosmic Blues: così lo definì Lonnie L. Smith, che le note di quel piano elettrico metteva in fila, come lo spumeggiare dell’onda, l'andirivieni del respiro od il brillare tenue dell’Orsa minore.
Ma anche uno Spiritual intenso, terso e disteso:
Pharoah è il pifferaio magico e noi tanti topolini bianchi, attoniti.
Pharoah è il coltello d’argento e noi siamo burro.
Pharoah è la primavera e noi tanti teneri germogli.
Pharoah è la nube che passa ed è il monte immoto —il pensiero che svanisce e la mente che non trema— e noi piccole gocce di brina.
Pharoah è l’arciere dalla mano ferma e noi l’ignaro bersaglio.
Pharoah ha insomma tra le mani un veicolo d’ammalianti disarmonie, e con un dondolare candido ci culla ed avvince.
Thembi cioè degno di fiducia. E così è di certo, quando ci porta per mano su percorsi piani o accidentati. Il suo incedere tenorile ha fatto della scienza dell’attimo la punta acuminata di questa freccia invisibile e dell’eternità il proprio modus vivendi. Da quando in qua la disfasia sonora (freejazz la si chiama di solito, impropriamente) sa di intimo, di familiare? Eppure è proprio così.
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