"Alice comiciava a sentirsi assai stanca di sedere sul poggetto accanto a sua sorella, senza far niente: aveva uno o due volte data un'occhiata al libro che la sorella stava leggendo, ma non v'erano nè dialoghi nè figure, -e a che serve un libro, pensò Alice- senza dialoghi nè figure?".

"E a che serve un disco -pensavo io un'oretta fa- senza dialoghi e con poche figure (?)" mentre mi rigiravo fra le mani questo "Snowtorch", ottavo ed ultimo (ma ancora per poco, giacchè ad Ottobre 2011 andrà in stampa il seguito di Number Seven) long playing del combo intestato al polistrumentista (nonchè cameraman di telenovelas e serialacci tipo "General Hospital") Javier Phideaux.

Serve eccome.

Avrete sicuramente provato, in tenera età, a ripetere davanti allo specchio per cinque volte il lemma di Candyman. Oppure, sempre in fase imberbe/ scellerata, a calarvi un trip e ad assecondare l'itinerario del Bianconoglio per fratte di mirtilli e torrenti di glassa.

Ecco, quelle sì che sono cose che non servono a niente (se non ad aggiudicarvi una segnalazione ai servizi sociali). Provate invece a scandire "n volte" il nome Phideaux, magari spalleggiati dal supporto ciddì di Snowtorch nel lettore del vostro maniero.

Oltrepassate le soglie dimensionali tramite un buco nero di massa stellare originatosi "straight from the 70's", dallo specchio-crinato coleranno note sublimi che vi rapiranno in un mondo favolistico e multi-colore fin dall'incipit di "Star Of Light". Un collasso gravitazionale aizzato da una strumentazione-analogica che potrebbe essere il bottino d'uno "sgobbo" agli Abbey Road.

Usciranno i Jethro Tull da quello specchio, evocati dai cambi tonali e dai viluppi progheggianti del suddetto abbrivio, seguiti a ruota -quando irrompe il moog di Johnny Unicorn- dagli Anathema "in crescendo" di "Thin Air" e dalla svolta "ambient". Come in un intonso Thick As A Brick riesumato dal feretro del progressive-che-fu si propagheranno partiture soffici e circolari, in un continuo tallonarsi fra voce maschile (l'istesso Phideaux) e femminili (le gemelle Ruttan e Valerie Gracious). Un (Sa)marillon sintetizzato in un concept-ritornate.

Rispetto al bellissimo "Doomsday Afternoon" (2007), infatti, "Snowtorch" è imbastito sostanzialmente su un'unica canzone, il cui testo ("Tell me how the planet was formed") riciccia (de-strutturato) più la nel disco, così come la melodia che si frammenta e sparge i suoi cocci nei 45 minuti della durata. Tre quarti d'ora saturi di roba: dai Genesis epicheggianti che fanno capolino nel tappeto tastieristico di "Helix" agli inserti d'Italo-Prog da far sbiancare Le Orme (riferimento esplicitato in più interviste dall'orchestrina di Javier) di Snowtorch Part II (segmento Fox Rock). Dalle finezze intricate di A Passion Play (l'album preferito dai sei musicisti) all'incedere frazionato di The Lamb Lies Down On Brodway. Il folk e il Prog che si prendono una sbronza colossale, cazzeggiano di massimi sistemi e finiscono al tappeto ricamato di synth ed effigi medievaleggianti.

Un cosmo incantato quello di Phideaux, esterrefatto di sorprese e panorami-lisergici in cui potrete scorgere il trotterellare-pensoso d'Alice.

Inseguita da Candyman, che di uscire da quello specchio poi, davvero chi glielo fa fare.

 

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