Servirebbe un po'... un po' di tempo.

Una pausa dal mondo reale, nella quale poter staccare il cervello e chiudere gli occhi. Servirebbe poi la giusta sede per questo straniamento, un locus amoenus per dire, ideale ma non necessariamente isolato o fermo, dove poter trovare lo stato mentale adatto.

Tutto questo per dire che il nuovo lavoro di Philip Selway, batterista dei Radiohead, non è un album per tutti i giorni.

Ci sono alcuni artisti a cui si deve dare il tempo di sbocciare, forse schivi per natura, riflessivi, non danno tutto e subito, necessitano del loro "momento".

Un disco che sorprenderà i fan del gruppo che lo ha reso famoso, ma che potrà trovare estimatori anche in un pubblico diverso. Come coloro che ricercano la canzone d'autore, semplice ma mai banale.

Dopo l'inarrestabile macchina elettronica di Thom Yorke e la vena compositiva votata alle colonne sonore di Jonny Greenwood, è il batterista che muove il passo più deciso, non del tutto inaspettatamente in realtà. Sembra che da soli rendano meglio i "ragazzi", svuotati di quella responsabilità da prossima uscita.

Se il primo disco si era essenzialmente risolto in alcuni brani molto semplici, costituiti dal binomio vincente voce e chitarra, questo "Weatherhouse", in uscita il 6 ottobre per Bella Union, appare come già completo e adeguato all'istante in cui il compositore forse si trovava, quel "momento" per l'appunto.

Grande personalità nella voce, che non era apparsa nel precedente lavoro, quasi avesse paura di "sforare", e che qui invece tocca corde espressive che mi piacerebbe sentire più spesso. Come quando da piccoli si aprivano i cassetti dei genitori e si trovavano oggetti semplici, elementari per gli adulti, ma che a noi sembravano chissà che cosa.

Arrangiamenti certosini e soluzioni armoniche maggiormente curate. Per chi apprezza gli archi ad esempio, qui posati accuratamente e in maniera assolutamente non invasiva, troverà pane per i propri denti.

Dopo il singolo "Coming Up For Air", con il suo incedere deciso e coinvolgente, ci si accorge facilmente di essere di fronte ad un disco costituito da vere e proprie canzoni. La nebbiosa "Ghosts"; "Miles Away" perfetta nella sua ricerca quasi lo-fi.

Non mancano momenti più ariosi e melodicamente delicati come "Drawn to the Light", perfetta colonna sonora per un film ambientato in un aeroporto giapponese, dove ti passa di fianco un milione di persone e tu quasi non te ne rendi conto. Fantastica. O come la ballata matura, dal sapore beatlesiano e arrangiamento sopraffino, "It Will End In Tears".

E l'album fila via, scorre veloce e senza intoppi, non cala alla distanza (merce rara di questi tempi) e ti trascina fino al finale, colorato da alcuni violini ciondolanti e asimmetrici. Come se la molla del carillon della copertina stesse lentamente perdendo la sua spinta motrice, fino a fermarsi inesorabilmente.

Grandi compositori crescono. Servirebbe un po' di tempo insomma.

Carico i commenti...  con calma