“Una montagna repellente: 1600 metri di roccia marcia, nera e scivolosa intercalata da ghiacciai pensili che scaricano in continuazione sassi e valanghe convogliati sulla direttiva di salita da un’enorme clessidra. […] La mattina del 6 agosto attaccai. Avevo con me una macabra descrizione della via: si inizia dove sono morti Sandri e Menti, si attraversa dove è morto Kurz, si arriva al “Bivacco della morte” e così fino in vetta. […] La parete sembrava un cimitero di guerra: resti di precipitose ritirate, brandelli di vestiti, uno scarpone conficcato nella neve, zaini abbandonati, spezzoni di corde che pendono come fantasmi. […] Il tempo poi cambiò improvvisamente. Cominciò a nevicare e la parete divenne non solo macabra, ma mortale. Mi resi conto che su quella montagna non serviva essere preparati con caparbia volontà, non serviva aver macinato chilometri e chilometri di pareti verticali. E io, che mi ero sempre affidato alla tecnica, non potevo mettermi nelle mani della dea bendata“.

Non mi piace quasi mai partire con una citazione. Impantanato in un incipit traballante mi sono tuttavia convinto che forse, per rendere l’idea di cosa abbia rappresentato per l’alpinismo l’Eiger e la sua tremenda parete nord, questo estratto mi potesse aiutare nell‘intento. Chi scrive è Cesare Maestri. Se non è stato per tecnica e talento il più grande scalatore degli anni ‘50 e ‘60 assieme a Walter Bonatti, sicuramente fa parte di una delle dita della prima mano. Il primo uomo capace di scalare in discesa una parete di sesto grado superiore “in libera“. 900 metri di muro verticale con solo degli scarponi senza vibram. Due coglioni di dimensioni gigantesche solo per pensare di cacciarsi volontariamente in una situazione del genere. Tutto questo agli inizi degli anni ‘50. E costui, con un curriculum vitae da far accapponare la pelle, scrive quanto sopra dell’Eiger: avendo timore per la propria vita tornò indietro. Non solo: cosa più unica che rara nella sua carriera sterminata non provò nemmeno una seconda volta la scalata. Era fermamente convinto che vincere quella parete nord (scalata per la prima volta nel ‘38), a quel tempo almeno, fosse solo questione di fortuna. Una tremenda roulette russa alla quale ebbe il coraggio di dire, per una volta, no.

NORTH FACE

La trama è secondaria per un film del genere perché non è frutto della fantasia di uno sceneggiatore più o meno talentuoso. Prende spunto dalla storia. E ve la racconto quindi nella sua interezza. Perché “North Face” non deve essere apprezzato e criticato per il finale, ma per come viene trasposta su pellicola un’enorme tragedia dell’alpinismo di inizio secolo.

Pelle della consistenza del cuoio, colore quasi più prossimo al nero che al marrone scuro per le ustioni del freddo gelido, frutto di un bivacco all’addiaccio in uno sperone di roccia non più grande di mezzo metro. Cala Tony dalla corda troppo corta del soccorso alpino. Lentamente. La salvezza è lì. Lo possono quasi toccare con le picozze tanto è vicino, ma la forza per sbrogliare un banalissimo nodo non c’è più. Una vita, la quarta, asciugata fino in fondo dall‘Eiger. Dalla maledetta parete nord dell’Eiger.

“North Face” è un film imperfetto, ma assai godibile perché capace di trasmettere allo spettatore la tensione e le emozioni contrastanti proprie dell’euforica consapevolezza di essere sul punto di poter scrivere la storia dell’alpinismo e di rischiare la vita per questa scalata. Tony Kurz la pensava più o meno come Maestri: non sentiva la necessità di mettersi alla prova con una parete del genere nella quale troppe variabili (tempo instabile, freddo pungente, caduta sassi nel disgelo estivo, valanghe e appigli incerti di roccia marcia) si intersecavano sulla via d’ascesa. Ma la propaganda, durante il culmine del nazionalsocialismo spingeva per l’impresa di marchio teutonico e il suo compagno di scalata, Hintersoisser, era attirato dall’Eiger come ferro al magnete.

Una colonna sonora volutamente scarna sottolinea senza forzature i molteplici momenti di tensione. Viene lasciato spazio ai rumori dei chiodi che sbattono durante la lenta salita, le picozze che scavano nel ghiaccio, le martellate nel granito, le urla di dolore e grida di disperazione. La fotografia minuziosa si sofferma sui particolari tecnici inquadrando spesso mani agili e frenetiche alla ricerca di un saldo appiglio. Le inquadrature scelte riescono inoltre, come raramente accade, a rendere la verticalità e l’idea di cosa significhi arrampicare in alta montagna. E’ una storia incredibile nella quale lo spettatore viene scosso violentemente a ripetizione. Uno sviluppo lineare, classico, pressoché senza flashback e che, nella prima parte, mira a costruire un’attesa lenta, ma crescente. I minuti volano veloci carichi di phatos ben resi dalla prova corale degli attori (non eccezionali se presi singolarmente) e dal continuo rimbalzo tra il piano sportivo agonistico, politico giornalistico ed un acerbo, ma intenso, intreccio amoroso.

Non critico quindi l’opera, oggettivamente ben riuscita e potente. Nutro qualche perplessità invece sulla distorsione della realtà. Nel film la competizione tra le varie cordate di diversa nazionalità è quasi esasperante: il fulcro del film quasi fosse una gara. In quel luglio del ’36 invece, austriaci e tedeschi non ebbero problemi ad unirsi in un’unica cordata dopo aver superato il punto nevralgico della via. Kurz e Hintersoisser vengono dipinti nel lungometraggio come eroi, alpinisti superiori, che non riuscirono nell’impresa solo perché rallentati dai goffi austriaci che si erano infortunati. In verità rinunciarono alla scalata non solo per l’incidente accorso, ma anche perché il tempo pessimo e gelido aveva reso impossibile l’ascesa senza i ramponi e vestiti più pesanti. Ed infine vengono lanciate frecciate velenose nei confronti dei soccorritori. Pecore timorose, dipinte addirittura come incompetenti, visto che utilizzarono la corda sbagliata per far scendere Tony nel tragico epilogo. Le ricostruzioni hanno al contrario stabilito che lo scalatore, non più lucido e quasi completamente assiderato, commise l’errore fatale di usare un moschettone troppo piccolo per calarsi che si incastrò e lo lasciò lì. Sospeso a un passo dalla salvezza.

Quello che mi domando è: non era già abbastanza colorita la storia nuda e cruda?

Un lavoro comunque pregevole che contrappone l’egoistica necessità dell’uomo di sfidare i propri limiti da una parte ed il senso stesso di mettere a repentaglio la propria vita per la conquista di un obiettivo. La visione di “North Face” quindi, oltre ad appagarvi qualitativamente, potrebbe essere foriera di piacevoli e scoppiettanti discussioni: magari con una pinta di birra in mano al primo bar fuori dal cinema.

ilfreddo

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