“Uno dei più emaciati parti della recente storia del gelido, roccioso, north-american sound (per quanto obliquo e spettraliforme, di rock comunque trattasi)”.
Si potrebbe così, spicciativamente et agevolmente, descrivere quello auricolarmente spiattellato dai magnificamente malinconici e melanconici (mi si perdoni l’obliquo pseudo-ossimoro) Picastro. Opera tribolata, sofferta quanto impavida ed affascinante, composita da una “suono-lagrimevolezza”, austera quanto solida, realizzata da quattro vieppiù young Canadians virgulti et segnatamente per questa (ancorché banale) motivazione ancor più pregna nonché satolla di cospicueggievoli motivi di auricolar-interesse. Un humus fosco quanto umbratile, solo sporadicamente concedente qualche sparuto suono-millimetro di leggiadro ausculto, intriso com’è fino al midollo di una palpabile und ancestrale psichicam-subferentziae [altamente (s)consigliato a chi desideri evitare potenziali opprimenti crisi depressive o, nella peggiore delle ipotesi, attanagliato da cupio dissolvi], dipanantesi tra le (più che inter)personali, sussurrate flebili-timbriche della spesso melodiosa vocalista, violinista e piano glockenspiel-ista Miss Liz Hysen, arpeggi chitarristici acustico-grattugiati spesso monocromatici und deserticheggianti anzichenò: notevole, in questo senso, il climax (pseudo)tex mex presente nella tesa nonché severa (e bellissima) “Sharks”, brano per cui Calexico firmerebbero numerose e vitalizie cambiali in bianco... und pachidermie et dislessie ritmico/percussive; il tutto colorito (si fa per dire) da spesse coltri di plumbeo violoncellame assortito abilmente dispensato onde attribuire una cospicua plusvalorica suono-infittenza e posto a definitivo sigillo di ulteriore rattristante cesellatura e salmastro umore, atto a spengere i rari barlumi di fioca audio-lux affiorante: dovendo trovare un raffrontabile corrispettivo celluloidistico, senza indugio indicherei il crepuscolare e ultra-introspettivo "Felicia's Journey" del regista (guarda caso) Egiziano/Canadese Atom Egoyan. Il sofferto eiettato a scarnificate note (la rovinosamente apocalittica “Skinnies” o ancora la ultra-intimista “I Can’t Fall asleep” appagano realmente et altresì’ di più per avviluppante e solido grey-cromatismo sonoro) pur essendo sobriamente personale e non facilmente raffrontabile (...per il vaneggiatore ivi scrivente, a scanso di equivocamenti equivocistici), rammenta, per citare ambiti espressivi non proprio similari ma dai “rattristanti” finali risultati, l’altrettanto audio-rantolante (e magnifico) “Black Black” lavoro di Chokebore-iana memoria.
Sporadicamente il livello di autocommiserazione acustica raggiunge vette (o abissi, Fate Vobis) pressoché esacerbanti e simil-gratuiti (ad probationem: l’incipit impassibilmente forzato/stonato della contorta “Dramaman” o le nenie ultra-sofferte generanti “Ah Nyeh Nyeh”): fortunatamente (per Loro, ma soprattutto per gli attoniti e “divertiti” auscultatori) trattasi di sparuti forzosi frammenti immersi in una spinosa, introspettiva e notevole suono-intriganza; testimonianza tanto intimista (ben tre le tracc(i)e catturate homemade) e ostica quanto cerebralmente stuzzicante: stabilite Voi il quantum.
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