Pasolini è una di quelle menti ultrasopraffine di cui l'Italia attuale, dilaniata da finto intellettualoidi arruolati a destra e a manca per show catodici, da arroganti professorini al governo e da pseudo progressisti con la puzza sotto il naso, avrebbe seriamente bisogno; un uomo fin troppo avanti per l'ultimissima contemporaneità, figuriamoci per l'epoca in cui si trovò costretto a operare. Versatile, avanguardista, quasi preveggente, aborritore dello squallore belpaesano antico e moderno, Pasolini, dopo aver fuso nella molteplicità della sua girandola artistica il clou del Neorealismo e del "feeling" post bellico e aver sfornato kolossal di elevata caratura (Vangelo Secondo Matteo, Medea), decise di virare verso la fonte della vita, la piena libertà nell'esibizione della fisionomia corporea umana, la sorgente del male e del bene, dell'intrigo e del piacere, della morte e della resurrezione. E fu così che venne alla luce la "Trilogia", il celeberrimo tris di riadattamenti su pellicola di altrettanti capolavori della letteratura "sociale" medioevale, significativi nello svelare gli arcani impudici e sporchi di un popolo psicoticamente ossessionati dal Trascendentale - e dalle varie Bibbie redatte da anonimi personaggi di dubbia esistenza - che nel frattempo infrangeva qualsiasi obbligo imposto da terzi o da sé, gettandosi a capofitto nei rituali meno puri per antonomasia. Dall'Italia filopapista eroticissima del Decameron al razzolare nei lupanari più bollenti dell'antico impero britannico nei Racconti di Canterbury, fino ad arrivare ai colleghi magister del kamasutra arabico delle Mille e Una Notte, la riflessione di Pasolini aveva un solo, grande obiettivo: far vedere ai contemporanei che la loro ars amatoria neanche si avvicinava di intensità, vigore e "sperimentazione" a quella degli antenati guelfi, ghibellini e beduini di diversi secoli prima.

Pasolini cominciò dunque con il Decameron boccaccesco, vuoi per l'intenzione di esordire con la sua natia italianità culturale e sociale, vuoi ancora per il desiderio di farcire con tanta verve sessual-erotica l'estrema vicinanza con la casta del Cupolone ben più viscerale e insozzata dei suoi sudditi. Il primo capitolo della "trilogia della vita" non si è tuttavia ridotto ad un blando lungometraggio simil-pornografico sui più spinti vezzi intimistici dei medioevali: convocato il meglio del suo team di attori coi quali aveva scalato l'olimpo della meglio cultura del dopoguerra (Franco Citti, Ninetto Davoli e persino una delle vamp più quotate dell'epoca, ovvero Silvana Mangano), Pasolini spostò il background geografico (e non solo) del film dalla Firenze del romanzo a Napoli, scelta che lo stesso regista motivò con la ferrea volontà di staccarsi dal conformismo italico poco propenso alle nicchie locali; poi, non contento della trasposizione effettuata, cancellò dai dialoghi la "purezza" dell'italiano standard appena venutosi a imporre con la televisione e i quiz Mike Bongiorno-tipo e la sostituì con il napoletano più tipico e incomprensibile. Ed è così che nella ricca rosa di novelle scelte per l'occasione, Pasolini gettò all'aria la raffinatezza fiorentina pre-rinascimentale, madre dell'italiano moderno, rifiutò di sciacquare i panni in Arno e li immerse invece nel meno colto, ma altrettanto interessante Golfo del mandolino.

La Napoli pasoliniana è un coacervo di intrighi, arguzie, furbizie, gag e trucchetti e l'umorismo comico, di cui già si cibava la fiorentinità di Boccaccio, è ulteriormente arricchita dalle maschere, dagli umori, dalla spassosa perfidia-spietatezza e dal carattere ambiguo, enigmatico e giocherellone dei partenopei, tratti ancora adesso distintivi nell'inquadrare le menti del capoluogo campano. Proprio fra i vicoli del centro si annida questo "ben di Dio" della verace napoletaneità: giovani verginee che ingannano ingenui messeri inventandogli parentele inesistenti per poi rubare loro ricchezze e cacciarli con l'approvazione ipocrita del vicinato, monache con le mani giunte e con i canti al Signore che fanno la coda per giacere con un aitante sordomuto (che miracolosamente guarisce poco dopo aver visto il poco prorompente fisico della più anziana ben disposta allo stesso trattamento delle colleghe), ragazzine decise a dormire sul terrazzo al fine di accogliere segretamente giovani amanti. E ancora: donne, fattucchieri e finto maghi che riescono persino a consumare rapporti adulterini innanzi ai coniugi imbambolati, peccatori della peggior specie trasformati in veri e propri santi (la nota novella di Ser Ciappelletto), amicizie tradite, e così via, in un vortice di profano, nudismo, attività sessuali aperte (e all'aperto), sordide malignità ed efferate tresche.

Inutile precisare che il capolavoro pasoliniano, forse il fiore all'occhiello della trilogia, incorse nelle grinfie del poco mite sistema censoreo dell'Italia dei primi Settanta e inaugurò le ultime, tormentate, diatribe fra il regista-scrittore e la (pseudo) giustizia, diatribe culminate post mortem con il sequestro e il diniego del suo crepuscolo filmico, l'agghiacciante Salò o le 120 Giornate di Sodoma, un indimenticabile inno a quello sporco indelebile tuttavia invisibile che Pasolini e pochi seppero individuare, rappresentare e iperbolizzare come mai prima di allora. Sporco che comunque non è stato lavato dai successori (o almeno dalla maggior parte) e che purtroppo si annida sempre più in una penisola lacerata dalla faciloneria istituzionalizzata che si scandalizza di fronte ad un corpo nudo e poi osa demistificarlo negli antri delle varie ville e dei vari bordelli mentali e corporali sparsi per il nostro caro Paese.

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