Dei primi anni '80 ricordo distintamente una cosa: sotto il terrazzo di casa mia era spesso parcheggiato un vespone bianco, con schiacciato sopra un adesivo sbiadito con la scritta "The Clash", di cui non capivo il senso, sia perché scritto nella lingua strana dei militari dell'Afi che a volte giravano per il mio quartiere, inscenando improvvisate partite a basket in uno spazio di cemento che si intuiva dalle finestre della mia camera, sia perché pieno di "h" strane e messe accanto a lettere inattese, in un'epoca in cui la "h" andava quasi sempre dopo la "c" del "perché".
Era d'altra parte l'epoca dei miei primi "perché", ma le domande che mi facevo, gli interrogativi che sollevavo in casa, erano molto più concreti del significato della misteriosa parola "Clash", e non andavano oltre la richiesta di un giro al parco giochi, o alle giostre nei sabati pomeriggio di primo autunno, in concomitanza con l'importante fiera provinciale e con l'arrivo di tante persone nella città in cui ci toccava vivere allora.
Negli anni i miei interrogativi si sono fatti via via diversi, forse più complessi ma al dunque sempre collegati alla voglia di fare, o di non fare, qualche cosa, solo che adesso in gioco non ci sono più le giostre, il parco giochi, vedere partire i treni per Milano o Torino della domenica mattina, ma altre cose.
E' da un pezzo, poi, che penso di aver percepito il perché della parola "Clash": compendio dei miei ricordi dell'epoca, ed al contempo messaggio, quasi profezia, di un certo spirito dei tempi, e di un pur vago senso della vita: scontro ed incontro con persone, idee, luoghi, sensazioni, tappe, traguardi, ritorni e nuove partenze.
Ho sempre vagheggiato un ritorno agli anni '80, ma con la testa e le idee del mio oggi, per rivisitare quello che intuivo attorno a me, senza però poterlo comprendere, capire e vivere: forse un ritorno per negare a me stesso il mito dell'infanzia, e per riscoprire che, oltre il terrazzo di casa mia, il mondo non era certo migliore di quello di oggi, e viziare certi ricordi è un modo come un altro per fuggire e ricostruire un mondo che non c'è, un proprio, personale, paese delle meraviglie, come la bella Alice del non altrettanto bel film di Tim Burton.
E' da qualche mese che agli anni '80 ci ritorno sempre più spesso, leggendo in maniera disordinata, caotica, casuale, le sensazioni, le emozioni, le analisi di Pier Vittorio Tondelli, raccolte da Bompiani in un libro il cui titolo, "Un weekend postmoderno", è tanto efficace quanto traditore, non essendovi nulla di davvero post-moderno, verrebbe da dire relativo e passeggero, negli scritti di Tondelli; e nulla che possa ridurre le sue pagine al riposo del weekend, alla stasi di certi pomeriggi della domenica - in cui come il Conte di "Azzurro" - si aspetta soltanto il treno dei desideri, sempre che si abbia la fortuna di poter coltivare il proprio ozio e non si debba essere al lavoro.
Capita di tenere questo libro sul comodino, o sulla libreria del corridoio di casa, e leggerlo in qualunque momento della settimana, anche quando dovrei fare altro, aprendo a caso una pagina, o cercando alla rinfusa dei nomi nell'indice analitico - ricco, reale, utile, e non perfettamente ridondante, celebrativo, come spesso è questa parte dei libri - seguendo così le vicende degli anni '80 che non ho vissuto, cogliere lo spirito di un tempo che, per quanto fossi al mondo, non era ancora il mio, catturare un passato che forse coltivava i germi del nostro presente o forse no, vivendo piuttosto dell'estemporaneità di ogni presente possibile.
E', questo, un libro che ci parla della vita, della vitalità di un'epoca, facendo apparire e scomparire, quasi come in un teatro personale dell'autore, al contempo cronista, maschera, spettatore e prim'attore, figure e personaggi che, in queste pagine, sembrano cavalcare in eterno l'onda della propria gioventù, che pare non infrangersi mai.
E' una gioia per la mente, e a volte anche per il cuore.
Grazie a Tondelli, vedo apparire Francesca Alinovi presa a spiegare il senso del crescente africanismo delle periferie dei primi anni '80, il contatto fra le ritmiche tribali del continente di "Cuore di Tenebra" con il gusto elettronico delle tribù metropolitane disinnamorate degli indiani di fine anni '70: ed ecco che i Tom Tom Club, o i Talking Heads che ascolto oggi, nel 2010, perché negli anni '80 erano troppo distanti da me, sono al centro di una scena allestita meglio che al CBGB.
Leggo, in queste pagine, delle tormentose stagioni del rock demenziale di Roberto Antoni, talora freak, e del motto, forse utile anche oggi, per cui l'unica violenza non controllabile è la violenza della demenza, trovando poi un puntuale resoconto delle prime uscite dei Gaznevada nella provincia emiliana, in mezzo all'afa e alle zanzare, riconsiderando, nella descrizione dell'insanabile contrasto dei campanili di Carpi e Correggio, o nella descrizione dell'alto campanile di Pordenone e del suo Complotto, le ispirazioni di certi artisti di oggi: da chi mi canta di "tutti gli altri libertini/che sono stati/biodegradati", forse per essere disinnescati, o di chi, ripensando ai circoletti Arci dell'epoca, parla di sfigati sul palco e mangiapane a tradimento, concludendo che "sia andata poi di lusso quasi a tutti", compresi quei Ligabue e Zucchero che Tondelli coglie, ad inizio carriera, nel loro desiderio ancora genuino di un'America "qui ed ora", epigoni di Alberto Sordi, ma anche di tanti yuppies di quegli anni.
Leggo anche di vicende più minute, apparentemente trascurabili, come della voglia di formare un gruppo punk a Macerata - Gangway cercasi - descritta a Tondelli da un suo amico commilitone, poi non più pervenuto e scomparso nell'anonimato di quella provincia che non si voleva più sentire come anonima, trasformandola in un Queens italiano (e si vede che i maceratesi non sono mai stati al vero Queens); come una gita ad Udine ed un viaggio in treno oltre il Tagliamento, verso queste città dell'est italiano che sono una specie di Fortezza Bastiani, in cui l'ex marmittone Tondelli va alla ricerca delle nuove mode e tendenze underground, dove non ti aspetti ci siano, e invece ci sono.
Estraggo a sorte una pagina, e vedo descrizioni delle discoteche di Rimini e dei forzati del divertimento - cui oggi Facebook pare dedicare pure dei "gruppi" - riflessioni sulla natura di questi luoghi di vacanza e di svago da sabato sera, in cui i fari delle discoteche brillano fuori stagione, la musica sbatte contro le mura, quasi ad allontanare, in autunno ed inverno, le spiagge vuote, gli ombrelloni richiusi, rigettando nel passato tanghi e mazurke e fisarmoniche ed altro. Di riviera si parla anche con riferimento alle vacanze di Pasolini, ai suoi legami con altri irregolari come Comisso e De Pisis, in passaggi in cui l'indagine di Tondelli confonde critica letteraria, investigazione psicologica, sottile ricerca delle proprie radici culturali e di possibili modelli da tradurre (e quindi tradire), rivisitandoli nel suo girare per le strade padane.
Da Pasolini ad Oscar Wilde, si finisce per seguire gli arditi paragoni fra Morrissey - lo stesso tardopalestrato che oggi dimostra una senescente passione per un'Italia invecchiata in fretta quanto lui - ed altri maudits che furono, dissezionando i suoi testi come fossero alta poesia decadente, senza mancare un sorriso per un cantante pop rock che impugna fiori come fossero una mazza da baseball.
Pochi secondi fa ho letto una pagina in cui si riflette sul sorriso franco di Loretta Goggi.
Tante, forse infinite, le strade che possiamo percorrere inoltrandoci in questo libro che pare una biblioteca, e tanti, infiniti quanti sono i suoi possibili lettori, i significati che possiamo attribuire, ancora oggi, a ciascuna di queste pagine, secondo la nostra personale sensibilità e visione delle cose.
Resta, alla fine, la consapevolezza che Tondelli fosse dotato di una particolare "grazia": non la grazia di chi sa scrivere bene, come sfoggio di tecnica senz'anima; nemmeno quella di chi sa cogliere il vivo delle questioni, o tocca caustici dettagli della nostra esistenza fino a scavare in noi e farci soffrire; neppure l'arte dell'affabulatore, di chi crea distaccandosi più o meno nettamente dal reale.
La grazia di Tondelli è quella di trasformare le piccole, trascurabili cose, in esperienze che racchiudono il senso di un'epoca, di rendere un piccolo teatro di periferia importante quanto il Madison Square Garden (o il Roof Garden cui fanno riferimento gli Elii nel primo album dell'89), di cogliere l'onda della vita nel momento in cui si distacca dalla massa dell'acqua, e sale senza ancora sapere che andrà ad infrangersi, ritornando all'origine e scomparendo nel tutto, nell'indistinto.
E' una situazione che a volte mi sembra di rivivere, in certe sere invernali, alla fine di un qualche concerto: si sale in macchina con le orecchie che ancora scoppiano, si scarta il cd del gruppo di spalla acquistato a 8 euro, si sa che in qualche modo bisogna ritornare a casa, scappa la battuta, presa dagli stessi Smiths tanto amati da Tondelli, per cui morire al fianco di un'altra persona potrebbe essere un privilegio (ma anche no), e si aspetta che i finestrini si spannino.
Fossi chi ero negli anni '80, aspetterei che qualcuno guidasse per me: oggi guido io, e, sulla scia di Pier Vittorio Tondelli, raggiungo casa girando a caso per le vie della mia o di altre province, sperando a volte di perdermi ed aspettando che quella stessa grazia torni, ogni tanto, a visitare i miei occhi.
A volte, può anche capitare. Spero che, ogni tanto, capiti anche a voi.
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